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Clandestini, animali e piante senza permesso di soggiorno – I Conigli, come sterminarli

Clandestini di Marco Di Domenico è un libercolo sui clandestini più inaspettati, quelli che non si vedono, non subito.

Granchi, vongole, formiche, storni, robinie e sciacalli.

Rose, scarabei, zanzare tigre e… conigli naturalmente.

E’ lunga la lista delle specie che sono state portate dagli esseri umani a bordo di navi e aerei, volontariamente o meno, là dove non erano mai state, dove non avevano nemici naturali, dove si potevano riprodurre e propagare liberamente, e liberamente creare danni, a volte fino a sconvolgere interi ecosistemi.

Ne dovrebbero sapere qualcosa gli australiani, che hanno diligentemente ripetuto lo stesso errore più volte. Furono 13 i conigli liberati nel 1859 per dare ai cacciatori qualcosa a cui sparare. Cento anni dopo la popolazione selvatica era di 1.000.000.000  e infestavano gran parte dell’Australia, distruggendo pascoli e mettendo a serio rischio la fauna autoctona.

Che carucci. Conigli che scorrazzano felici e pimpanti in cerca di nuovi pascoli da devastare!

Visti i brillanti risultati dell’introduzione dei conigli, gli australiani pensarono bene di risolvere il problema introducendo un’altra specie aliena, la volpe. Nota nemica dei conigli, in Australia li ignorò completamente e si dedicò ai più lenti e comodi marsupiali, peggiorando il problema. Gli Australiani, che evidentemente hanno ereditato la testardaggine inglese, provarono allora con un virus, Mixoma virus, diffuso dalle zanzare e letale per i conigli. Dopo poco gran parte dei conigli era contagiata e per un po’ di anni si pensò che il problema dei conigli fosse risolto. Ah, avessero gli australiani studiato un po’ di evoluzione invece di restare incollati alle credenze di tribù mesopotamiche dell’età del bronzo! Com’era da prevedersi, si selezionarono i conigli più resistenti al Mixoma virus e, nonostante tutti i tentativi per renderlo più contagioso, i conigli dopo qualche tempo divennero tutti resistenti alla malattia e proliferarono quanto prima (qualcuno potrebbe considerare questi fatti come la prova della superiorità del Coniglio, ma non è così, è la prova di qualcos’altro).

Che tenero il kiwi!

Gli Australiani non si fecero certo scoraggiare da certe bazzecole e riprovarono con l’arma batteriologica, stavolta con Calicivirus, che causa emorragie interne massive.Questa volta gli australiani riuscirono a sterminare buona parte della popolazione selvatica di conigli ma… anche buona parte della popolazione degli allevamenti! Che spiscio, non avevano pensato a vaccinare i conigli degli allevamenti! Il Calicivirus infettò tra l’altro anche altre specie oltre i conigli, è stato trovato persino nel famoso Kiwi, l’uccello simbolo della Nuova Zelanda a rischio di estinzione. La cosa più “divertente” è che il coniglio non è la specie che crea più danni economici all’Australia, lo battono il gatto e, di ben una lunghezza, attenzione rullo di tamburi, le volpi! Ahah mi vien da ridere (dati del 2004). Seguono ratti, maiali, capre, asini, persono i cavalli selvatici creano problemi e… dromedari! Vorrei stringere la mano al gegnio a cui è venuto in mente di portarceli…

Casi di specie aliene importate incidentalmente o di proposito sono la regola un po’ d’appertutto. Come quello degli storni in America. Sì, gli americani importarono di proposito gli storni a Central Park (riguardo al perchè lo fecero, questo va oltre ogni mia capacità di comprensione) e ovviamente gli storni si strovarono benissimo e non si limitarono a sgagazzare sulla gente come fosse neve a Natale solo a Central Park. Gli americano importarono anche il passero comune che, poveretto, non si adattò subito. Dovettero insistere parecchio perchè il passero diventasse a sua volta un problema.

Non mancano i clandestini di casa nostra, dal cinghiale, alla robinia, al siluro, alla cara vecchia pantegana, ai pappagalli. I pappagalli li ho visti; a Genova, vicino alla facoltà di biologia, ci sono due alberi di cachi e d’autunno ogni anno arriva un gruppettino di pappagalli verde-giallo selvatici che approfittano del banchetto.

Il Grande Mostro del Navigli

Se l’argomento vi incuriosisce leggetevelo, è molto carino.

The Elements of Style – Elementi di stile – manuale

The Elements of style è un classico dei manuali di scrittura, al di là delle varie edizioni, io faccio riferimento all’ultima, la quarta, è un testo che ha le sue origini in un libretto scritto e dato come dispensa all’università dal professore d’inglese William Strunk nel 1919. Il professore, visto che i suoi allievi ripetevano perennemente gli stessi errori decise di buttar giù il volumetto, un bignami di stile.

Elements of style non è un manuale di narrativa, i principi che contiene sono generici e mirano a rendere qualunque linguaggio scritto comprensibile ed efficace. Nel tempo sono state fatta aggiunte, ma è rimasto un libricino sottilissimo e denso. D’altronde una delle regole d’oro più volte ribadita nel vari capitoli è quella di non sbrodolarsi, mai usare due parole quando se ne può usare una sola.

Esisite anche una versione italiana, pubblicata dalla casa editrice Audino in quella serie di manuali di scrittura con la copertina beige, manuali di script (la versione inglese è della Longman). Non mi è riuscito di trovare sul mulo la versione italiana, per cui amen. Immagino che alcuni capitoli siano sensibilmente diversi dalla versione inglese, me lo auguro.

Trattandosi di un manuale di stile, i principi generici, come tutti i principi della narrativa, valgono in inglese come valgono in italiano, come valgono in swahili. Ciò non toglie che quando ci si addentra nei meandri della sintassi e della grammatica per vedere come vengono messi in pratica quei principi, non è detto che in due lingue diverse si incontrino gli stessi problemi. Se il discorso di usare gli avverbi con le pinze, e di metterne al muro quanti più possibile, vale in inglese quanto in italiano, un consiglio sul genitivo sassone ha motivo di esistere solo in inglese, mentre in italiano varrebbe la pena spendere due parole, ad esempio, sul tempo imperfetto. Quando poi si scende ancora più nel particolare e si analizzano i più comuni errori d’uso, è chiaro che tutto cambia passando da una lingua all’altra.

Elements of style è un manuale interessante anche se letto in versione inglese, in più si trova facilmente. Nel proseguo dell’articolo faccio riferimento alla versione inglese.

Il manuale è organizzato in regole elencate e numerate come comandamenti. Le regole che non riguardano la grammatica nuda e cruda non devono essere prese come ordini, e neppure come comandamenti, ma come ottimi consigli. Come dire: se esci dal seminato poi le croste te le gratti tu.

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Capitolo 1 – Regole d’uso.

Il primo capitolo è una selezione di regole di costruzione grammaticale che più facilmente vengono disattese dagli aspiranti scrittori. Alcune valgono anche per l’italiano, altre no. In ogni caso non è nulla di trascendentale, se conoscete la vostra lingua come si deve le applicate già da soli. Ad esempio, la regola di non mettere la virgola tra soggetto e predicato è per me un ricordo delle elementari. Leggendo quello che si scrive in giro riconosco che non è così ovvio che tutti lo sappiano…

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Capitolo 2 – Elementi di composizione

Capitolo molto utile perché contiene regole applicabili anche all’italiano. In realtà in italiano ne servirebbe qualcuna in più vista la grammatica un po’ più stronza di quella inglese.

12) Scegliete uno schema adatto e mantenetelo.

Quando ci mettiamo a scrivere, i dettagli della scena e le cose da dire vengono in mente in un ordine tutto nostro. Non è detto che quello sia l’ordine giusto in cui scriverle. A seconda dell’effetto che si vuole ottenere e delle necessità del momento è bene creare un ordine, o un disordine, ben definito e attenervisi. Il lettore avrà più facilità a seguire i passaggi logici/visivi/psicologici o quel che è.

13) Fate del paragrafo l’unità base della composizione.

Tradotto: non mettere i punti a capo a capocchia. (Non mettere niente a capocchia.)

14) Usate i verbi all’attivo

La voce attiva è… attiva. È immediata, diretta, precisa. Il passivo è… passivo. È indiretto, lavora di sponda e costringe a un giro logico in più. Non che il passivo debba essere bandito, ma andrebbe usato solo quando c’è una ragione precisa, tipo che si vuole sottolineare la condizione di passività; altrimenti andate giù di attivo.

Ci sarebbero anche i verbi riflessivi, trascurati in inglese perché praticamente non esistono. Qui dico la mia. Nelle scene d’azione, in cui bisogna essere veloci e pregnanti, preferisco, potendo scegliere, i verbi attivi, che non hanno il pronome di mezzo. Per il resto, i verbi riflessivi sono così importanti e semplici da usare che non fa differenza.

15) Mettete le affermazioni in forma positiva.

Idem con patate. Perché negare per affermare? Se si afferma si afferma, se si nega si nega. Chi nega per affermare spesso lo fa per timidezza o per disagio, non è sicuro di quello che scrive e allora smussa il tono negando per affermare. Mai indebolire la propria scrittura.

16) Usate un linguaggio concreto e specifico.

E qui si tocca un punto fondamentale. Al lettore bisogna dare qualcosa di fermo e sicuro a cui aggrapparsi perchè possa figurarsi la scena. Bisogna dargli dettagli specifici, precisi e concreti. Dettagli concreti necessitano di un linguaggio concreto. Essere concreti e specifici rende tutto più vero. Certo, se siete insicuri, se non sapete neanche voi cosa scrivere, vi rifugerete nella vaghezza e nel generico, così tanto tutto va bene, con la scusa che “così il lettore può lavorare di fantasia”. Il lettore lavora di fantasia se ha qualcosa su cui lavorare, se state sul teorico e sul generico si addormenterà dopo due righe.

17) Omettete le parole inutili.

Dire una cosa con più parole del necessario equivale a prendere il vino e annacquarlo. I verbi pleonastici, le ripetizioni, le seghe mentali, le diarree linguistiche… Se si usano le parole che sono necessarie, e solo quelle, la scrittura risulta forte e saporita. Di nuovo, le lungagginerie sono spesso segno di timidezza o di insicurezza.

In generale, omettete ciò che è inutile alla vicenda. Se state raccontando del vostro cane Paco che si perde nella Foresta Oscura e ritrova la strada di casa, è inutile raccontare della vostro prozia Andreina che si è spaccata un femore inciampando in giardino mentre raccoglieva margherite. Distrarrete dal punto della questione, mischierete il pane con la focaccia, indebolirete la storia e rischierete di annoiare senza ottenere vantaggi in cambio.

18) Evitate le successioni di periodi scollegati fra loro.

Beh, è un corollario della 12. Metteteci un ordine e collegate le frasi in maniera logica. Vale per la singola frase come per i romanzi interi: seguite una direzione.

19) Esprimete idee simili in forma simile.

Collegato al discorso di prima. Se la forma sintattica che scegliete corrisponde al ragionamento che volete esprimere, la scrittura risulta più chiara, più immediata. Il manuale fa esempi molto terra terra, ma il discorso è ugualmente importante quando si gestiscono non più singole parole, ma interi periodi.

20) Raggruppate insieme le parole correlate fra loro.

C’è bisogno di spiegarla? Sempre stesso discorso, metteteci un ordine che abbia direzionalità.

21) Usate sempre lo stesso tempo verbale.

Quarta elementare.

22) Mettete le parole da enfatizzare alla fine della frase.

Banale direi. Se la frase ha una direzionalità verso una parola è chiaro che quella parola deve stare in fondo. Fare il contrario sarebbe come scoccare una freccia con le piume sulla punta. Basta un po’ d’orecchio e molto allenamento.

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Capitolo 3 – Alcune questioni di forma.

Alcuni consigli di questo capitolo sono utili, tipo l’uso del punto esclamativo o dei colloquialismi, altri valgono solo per l’inglese.

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Capitolo 4 – Parole ed espressioni mal utilizzate

Immagino nella versione italiana questo capitolo sia stato scritto ex novo.

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Capitolo 5 – Un approccio allo stile

Il capitolo più interessante.

1) Mantenetevi in disparte.

Una delle cose più fastidiose è trovarsi lo scrittore in mezzo ai piedi una pagina sì e l’altra pure. Lo scrittore che pontifica, lo scrittore che giudica, per non parlare del sempre odioso scrittore che insegna, o dello scrittore io-sono-un-genio-voi-non-siete-in-grado-di-capire. In alternativa c’è lo scrittore ingenuo che pensa che la sua vita personale di pischello di vent’anni freghi a qualcuno, lo scrittore che non si accorge che l’autobiografia è il genere più difficile in assoluto, lo scrittore che vuole emulare i Grandi Classici e via di questo passo.

Se volete esprimere idee politico-sociali-reigiose e spargere in giro la segatura delle vostre seghe mentali, scrivete un saggio. Se scrivete narrativa tenetevi fuori dal palcoscenico, non è quello il vostro posto.

2) Scrivete in modo naturale.

Copiare è giusto, è così che s’impara, guardando come fanno gli altri. È sbagliato farlo deliberatamente, è sbagliato emulare. Trovate il vostro modo di scrivere, non ricopiate a papera lo stile di un altro.

5) Lavorate avendo in mente un progetto.

Dovete sapere dove volete andare a parare altrimenti non saprete in che direzione far progredire la storia. Aggiungo che dovete avere ben presenti anche quali sono i progetti dei vostri personaggi.

4) Scrivete con sostantivi e verbi.

Pensatela così: se io voglio andare al sodo, esprimere la sostanza in quello che scrivo, devo parimenti usare uno stile di sostanza. Provate a prendere la parti del discorso e a toglierne una alla volta. Vi accorgerete che le uniche di cui non potete fare a meno sono i sostantivi e i verbi. Sostantivi e verbi sono le colonne portanti, non vi tradiscono.

Ad esempio, perché usare un verbo debole per poi doverlo puntellare con un avverbio, quando posso scegliere un verbo forte, più preciso? Perché camminare velocemente quando posso correre? Perché correre disperatamente quando posso precipitarmi?

5) Revisionate e riscrivete.

Si spiega da sola. Pensare di aver raggiunto la Perfezione alla prima stesura denota o ingenuità o idiozia o un ego sterminato. Il consiglio è tanto più valido quanto più siete agli inizi.

6) Non siate troppi elaborati.

Lo stile tutto fronzoli e sciorinate irrita e annoia. A me dà l’impressione che l’autore mi stia prendendo per i fondelli, che mi stia vendendo aria fritta.

7) Non enfatizzate troppo.

Quando, presi dall’ansia di convincere il lettore che le cose stanno davvero, davvero come dite voi, enfatizzate troppo, il lettore anziché credervi diventerà sospettoso.

8) Limitare l’uso di aggettivi e avverbi.

Il manuale li chiama sanguisughe. Per gli avverbi non c’è molta pietà. Per gli aggettivi dipende quali aggettivi, quelli che mostrano sono meglio di quelli che raccontano. In ogni caso sono da usare con moderazione e mai come stampelle.

9) Non simulatevi disinvolti.

Mr. “Spontaneamente me”.

10) Regola che ha a che fare con lo spelling inglese. (Al max, per l’ita si potrbb dire d nn skrivere kosì.)

11) Non spiegate troppo.

Non ha senso definire ogni minimo dettaglio, specie se lo fate in maniera goffa. E di nuovo torna l’uso degli avverbi con l’esempio dei dialoghi dove, come principianti, ci si trova in obbligo di spiegare per forza come i personaggi parlano e invece di scrivere un semplice “disse” ci si inventa cose strane, “disse intensamente”, “disse pudicamente” eccetera. Il come i personaggi parlano deve essere mostrato dentro il dialogo, dentro le virgolette. Nelle descrizioni dei dialoghi (i cosiddetti dialogue tag) un semplice “disse” è di solito la soluzione migliore, con varianti su “chiese”, “bisbigliò”, “gridò” e simili. Di rado c’è bisogno di inventarsi altro.

12) Questa non vale granchè per l’italiano. Non costruite avverbi strani. Gli italiani di solito non costruiscono avverbi strani, ma potrebbero costruire altre stranezze. Io non sono contraria all’inventarsi termini nuovi e non mi viene affatto l’ulcera se vedo neologismi, l’importante è creare con criterio e usare se necessario, non per fare gli spendidi.

13) Assicuratevi che il lettore sappia chi sta parlando.

In generale, assicuratevi che il lettore sappia che è il soggetto della frase! Meglio dire il soggetto una volta di più che una di meno.

14) Evitate parole stravaganti.

Regola che riguarda sia le parole inventate sia l’uso di parole storpiate. È un divieto relativo. Parole stravaganti sono difficili da gestire, rischiano di risultare incomprensibili, ridicole o maldestre. Maltrattare la grammatica va bene a patto di sapere cosa si sta facendo e perché.

15) Non usate il dialetto a meno di avere un buon orecchio.

Fate in modo di conoscere bene il dialetto che volete usare e non esagerate. In generale, ogni volta che uscite dagli schemi state in guardia, abbiate ben presenti i rischi che state correndo e siate consapevole del motivo per cui vi state prendendo quei rischi. Se non avete un motivo valido, perché rischiare?

16) Siate chiari.

Oramai s’è capito.

17) Non immettete opinioni.

Vedere anche punto 1.

18) Usare le figure retoriche con moderazione.

Soprattutto, le figure retoriche devono aiutare a rendere il concetto più chiaro, non a incasinare ulteriormente le idee.

19) Non prendete scorciatoie a discapito della chiarezza.

Spesso si omette per pigrizia. Tutte le volte che scrivete “questo”, “quella volta”, “quell’uomo” “in quel caso” chiedetevi se non state omettendo. “Quello” cosa? Non scaricate mai sul lettore la fatica della scrittura.

20) Evitate le parole straniere.

Le parole straniere fanno sentire acculturato l’ignorante. C’è una ragione se i giornaletti scandalistici che compra al casalinga di Voghera sono annegati in fashion, sexy, trendy e cool. La verità è che le parole straniere, specie se di recente importazione e se usate indiscriminatamente, galleggiano come stronzi nel mare. Spiccano, attirano l’attenzione, si sbracciano e urlano “guardate quando sono figo, ho usato una parola straniera!” Se poi la parola straniera vi serve per davvero, mandate a fanculo i puristi e usatela.

21) Preferite il linguaggio convenzionale a quello gergale.

Stesso motivo della 15. Se uscite dal seminato vi prendete dei rischi, fatelo se avete ottimi motivi e se siete in grado di gestire la cosa.

Fine.

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Pensate che darsi delle regole sia restrittivo, che distrugga l’ispirazione, l’arte, il vostro personale stile?

Quando un pianista si siede alla tastiera cosa fa? Suona note a caso? No, suona note ben precise in un ben preciso ordine, con un ben preciso ritmo. Ha passato anni a studiare la tecnica e probabilmente continuerà a farlo finchè campa.

Non bisogna imparare a rispettare le regole, bisogna imparare a usarle.

La bottega del pianoforte

Titolo italiano: La bottega del pianoforte

Titolo origiale: The Piano Shop on the Left Bank

Autore: Thad Carhart

Anno: 2000

Lo scrittore, un giornalista americano trasferitosi a Parigi, narra il suo rapporto e la riscoperta della sua passione per il pianoforte. Un giorno, tornando a casa dopo aver accompagnato la figlia a scuola, nota nel quartiere parigino dove si è trasferito un negozietto polveroso con in vetrina parti di ricambio per pianoforti. Attirato senza saperlo dai ricordi della sua passione giovanile per il pianoforte entra a vedere e a chiedere informazioni. Entra nel mondo e nella mentalita parigina: nel negozio non c’è l’ombra di un pianoforte e il padrone, richiudendosi alle spalle la porta del retrobottega, la ricaccia cordialmente in strada senza rispondere a una singola domanda. Il fascino del pianoforte, come strumento, come mobile e come passione, è nascosto lì, nel retrobottega.

A parte rari capitoli, tipo quello in cui l’autore visita la fabbria dei Fazioli a Sacile, tutto il romanzo è ambientato a Parigi. La fauna del posto è gioca una parte importante nel godimeno del romanzo e vale di per sé la lettura; se siete innamorati di Parigi lo do per certo. Ma il protagonista è il pianoforte.

Ma… e’ il vecchio de Il vecchio e il mare!

Il problema con i romanzi che parlano di musica, come di altre forme di comunicazione, è che non possono esprimerla se non in parole e finiscono per perdere per strada la magia. Questo libro però non parla di musica se non indirettamente: parla del rapporto con il pianoforte, delle emozioni che vorticano intorno a un oggetto che in fondo non che è un insieme di legno e metallo, con qualche chiodo e un po’ di feltro.

Chi lo ama sa che il pianoforte può diventare ben più di un pezzo di mobilia o di un mastodonte a tre gambe per produrre suoni. È come se avesse una personalità, dei sentimenti. Ti risponde, gioca con te, ti prende in giro e ti fa i dispetti, ma quando tutto funziona e tu riesci  tenerlo sotto le dita diventa un’estensione di te e vibra all’unisono con te fino alle ossa.

In un periodo in cui non avevo tempo i suonare, mi sembrava un tradimento lasciarlo muto, che per un pianoforte equivale alla solitudine a al letargo forzato. Quando gli passo vicino accarezzo sempre i tasti, per salutarlo. Mi viene il magone anche solo a pensare di perderlo. E non prendetemi per matta, il fascino del pianoforte sta qui.

Questo romanzo centra esattamente il punto. Il pianoforte ha una vita sua propria, dalla nascita in una fabbrica dove l’artigiano lascia il suo nome scritto sulla cassa armonica dove non può essere visto, ai passaggi di mano, al momento in cui la persona giusta incontra il pianoforte giusto, il “suo” pianoforte, al momento in cui invecchia e, alla fine, deve morire.

Il tono del romanzo oscilla tra il commovente e l’esilarante. Ha una struttura episodica, tanto che vari capitoli si potrebbero leggere isolati dagli altri. Alcuni sono intimi, ricordi legati al pianoforte di quando l’autore era bambino, altri sono tra il surreale e il comico, come quello in cui l’autore, che si è appena coprato un pianoforte a mezzacoda (del peso di minimo minimo 200 kg), se lo vede recapitare a casa: un uomo solo se lo carica sulle spalle e se lo tira su per le scale schiacciato sotto il peso, rosso in faccia, trattenendo il fiato, l’imbragatura di cuoio con cui è legato al pianoforte che gli si pianta nella pelle, e lui, l’autore se ne sta in piedi in cima alle scale imminandosi il disastro se l’uomo avesse perso l’equilibrio. Non mancano momenti tecnici accenni di storia.

Insomma, se vi piace il pianoforte dovete leggerlo, se amate Parigi anche. Oltretutto è anche scritto bene.

In italiano l’ho trovato solo in versione cartaca, mentre in inglese esiste anche in ebook.

On writing – Stephen King

Delle due una.

O il nostro affezionatissimo King non ce n’aveva per il belino di scrivere sullo scrivere. O non aveva nessuna voglia di star lì a far la manfrina agli altri.

Oppure è successo che una volta riassettati appunti e idee ha scoperto che il suo libro non superava le 150 pagine. E chi ha mai visto un libro di King sotto le 400 pagine? Io ho la sensazione che negli Usa i libri li vendano a peso. Così King ha rimediato scrivendo un libro sulla scrittura in cui si parla di scrittura per davvero solo il 30% del tempo, facendo però felici i suoi fan che possono godere di un po’ di sano voyeurismo.

La terza possibilità è che volesse dare le ragioni di vita per cui si è, o si diventa, scrittori. Spero non sia questa perchè è da sanatorio.

Capiamoci, non è scritto male, anzi. È un libro che non vale molto come manuale di scrittura per il semplice fatto che non è un manuale di scrittura. Se il vostro interesse verte tuttavia sull’Illustrissima Persona del King, allora buttatevici a pesce, vi piacerà da morire. Conoscerete vita morte e miracoli del nostro affezionatissimo, dall’incontro ravvicinato con la poison ivy (esilarante per altro… se sapete cos’è la poison ivy e subito dopo leggete la parola sedere… beh, la vostra immaginazione completerà senza sforzo), al tunnel delle droghe, alla passeggiatina spensierata troncata dal pazzo sul gippone. Se della sua persona non ve ne frega granché, vi annoierete a star a sentire il King che ve la remena con i giornalini scolastici e la lavanderia e i filmi visti al cinema.

Se nel bosco un giorno lo stimolo vi cogliesse, con altra foglia strofinate il tenero vostro preziosissimo

Della parte in cui racconta dei fattacci suoi l’unica utilità sta nel come racconta certi episodi, vedi quello della poison ivy o quello dell’orecchio e del pus o quello dell’incidente. Si capisce che il King è uno che quando ha un’idea buona sa scrivere. Tutto qui. Il tutto qui, a parte le correzioni di tale John Gould a pagina 52 e poco pochissimo altro, dura dall’inizio fino a pagina 114 circa. Poi arrivano consigli stilistici, considerazioni sulla trama, sulle descrizioni, sui personaggi ecc ecc, più consigli pissicologgici, più episodi di vita vari ed eventuali. A pagina 253 si torna a non parlare di scrittura.

Non ho letto granché di King. Ho parecchi ebucchi di Sua Signoria Illustrissima, ma la sua tomosità mi ha sempre scoraggiato. Perché leggere 1000 pagine dello stesso romanzo (col rischio di trovarsene 400 di ripetizioni e pippe mentali, tipo Angeli e demoni di Danno Brown) quanto posso leggere 300 pagine x3 romanzi? Domanda che mi ripeto di continuo tentando di leggere G.R.R.Martin. (Ironicamente, King è anche noto per aver scritto il racconto più breve esistente.)

Ma tant’è, di King ho letto solo Stagioni diverse, una raccolta di quattro racconti lunghi, come li chiama Sua Eccellenza. Il primo, e nettamente il migliore, è Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank che leggerei solo per il titolo e da cui hanno tratto un bel film Le ali della libertà, che non guarderei solo a causa del titolo (quello originale è The Shawshank Redemption, e mi domando: da dove sono sbucate fuori le ali? Dico io…). I secondi due racconti non sono al livello del primo e l’ultimo è ridicolo.

[…] put your desk in the corner, and every time you sit down there to write, remind yourself why it isn’t in the middle of the room. Life isn’t a support-system for art. It’s the other way around.