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Avengers – presentare un personaggio

In questi giorni ho riguardato The Avengers. Il film mi aveva piacevolmente colpito, di solito gli action holliwoodiani-spacchiamo-il-culo-al-cattivone mi annoiano a morte. Begli effetti, per carità, al cine fanno la loro figura, gran begli omaccioni, un po’ di muscoli qua e là non fanno mai male, ma in quanto a sceneggiatura, uccidetemi adesso. Quando oltre ai personaggi piatti e ai dialoghi da pezzenti arrivano i facili moralismi e le banalità sentimentali, parte il rigurgito del panettone dell’anno prima.

Non che non abbia qualche difettuccio, ma merita il successo che ha avuto. Tanto di cappello a Joss Whedon che è riuscito a mettere insieme un film con una struttura inevitabilmente difficile, dovendo dividere i tempi per 7/8 sottotrame (la maggior parte dei film ne ha 2 o 3, al massimo 5).

Io, e non sono l’unica, ho apprezzato particolarmente il nostro amico Bruce Banner. Iron Man già lo conoscevo, grande Downey Jr., Thor tutte le volte che lo vedo mi vengono in mente quei dieci secondi di silenzio assoluto quando se ne andava in giro a torso nudo, tantaroba, mamma mia quantaroba, Cap America non è tra i miei personaggi preferiti, non ho neanche visto il suo solo film, la Vedova Nera è nettamente migliorata dalla sua comparsa in Iron Man 2, Occhio di Falco, tantaroba anche lui, l’unico che rappresentava una novità era Hulk.

Ora, io ho un debole per i personaggi che devono lottare contro un demone interiore, che nascondono un lato non proprio piacevole e, soprattutto, che sono ambigui e contraddottori. Di suo Hulk ha le carte in regola per piacermi, ma nessuno dei due film in cui è protagonista mi aveva entusiasmato. Di certo non è ben sfruttato il lato contraddittorio del personaggio, hanno puntato tutto sul dualismo uomo/mostro senza capire che il vero personaggio è Banner, è dentro Banner che bisogna costruire la contraddizione, Hulk è un derivato. Quello del 2003 con Bana me lo ricordo come un abbiocco tremendo. Temo il film abbia vari problemi, ma uno sicuramente è il protagonista stesso, troppo passivo per i miei gusti (sì, va bene, diventa grosso e verde, e poi?). Il secondo film, quello con Edward Norton, già è meglio. Banner è troppo lineare, troppo semplice, troppo staccato da Hulk, manca quel non so che, però almeno fa qualcosa, non viene solo sbatacchiato qua e là. Vedendo The Avengers, alla prima scena in cui compare Banner, mi son detta “taci che ci siamo”.

Nel film tutti i personaggi hanno il loro spazio e la loro piccola sottotrama, c’è però una particolare attenzione alla costruzione e alla presentazione di Banner, per l’ovvio motivo che, al contrario degli altri personaggi, il pubblico non l’ha mai visto prima. Mi immagino Joss Whedon e Mark Ruffalo chiusi in uno stanzino delle scope a confabulare “qui non dobbiamo fare minchiate”. In realtà il discorso che sto per fare si può fare per tutti i personaggi, ma visto che Banner è quello che ho preferito, ho deciso parlerò di lui, ecco.

Oppesse…

Il film si apre con la sequenza (una delle scene meno ispirate del film a mio parere) in cui come di consueto si presenta il problema, vale a dire Loki, la sua banda di assatanati e il tesseract; e si pone la domanda: riusciranno nostri eroi-non eroi, i vendicatori, ‘sta banda di randagi a fermarlo e salvare la Terra? Il resto del primo atto è per lo più dedicato a raccogliere e presentare i vendicatori. Nel secondo atto i nostri eroi imparano a lavorare insieme (grazie Coulson, buaahh nooo Coulson!), nel terzo… beh, nel terzo SMASH!

Com’è Banner/Hulk? E’ intelligente (anche come Hulk), sa una fraccata di cose, è pieno di contraddizioni, è gentile e mansueto, quasi timido (i timidi capiscono quanto bene sia azzeccata la dicotomia timidezza-rabbia) e allo stesso tempo è sicuro di sè, non ama la sua condizione ma ha imparato a farci i conti, tant’è che ha un che di triste e insieme è ironico, e autoironico. Cos’altro? Ah, Banner sarà gentile e mite ma è anche molto, molto pericoloso.

Bene, come si fa a dire tutto questo allo spettatore? Mostrandoglielo, naturalmente. Attraverso le azioni, gli atteggiamenti e il dialogo, adesso lo vedremo, ma c’è un modo di mostrare un personaggio sottile e molto intelligente che neppure necessita di avere il personaggio in scena: il modo in cui gli altri personaggi si comportano nei suoi confronti.

La seconda scena dopo la sequenza iniziale è quella dell’interrogatorio dell’Agente Romanoff aka Vedova Nera. Questa scena serve a presentare prima di tutto il personaggio della Vedova Nera. E funziona. L’Agente Romanoff sembrerebbe in una pessima situazione, lì a subire un interrogatorio, e invece è lei che sta interrogando gli aguzzini! Coulson le telefona e lei vuole finire il lavoro, lui le nomina Occhioni si Falco e lei molla subito tutto (sottinteso, c’è qualcosa sotto tra i due), in quattro e quattr’otto si libera di quei poveri cretini ed è pronta. L’Agente Romanoff è sveglia, è esperta, è abile, non si fa neppure troppi problemi. Insomma, alla fine di questa scena non c’è alcun dubbio, è una tipa tosta. Quando Coulson per telefono le dice di andare a parlare con il “big guy” lei pensa che intenda dire Iron Man e ci scherza sopra, invece no, Coulson intendeva il “big guy”, quell’altro. E l’Agente Romanoff come reagisce? Non è molto contenta. Bozhe moi in russo significa “mio dio”. Banner non è stato in scena neppure un secondo e già abbiamo indicazioni su di lui. Se la Vedova Nera è preoccupata di incontrarlo, significa che è imprevedibile e potenzialmente pericoloso. Il pubblico percepisce il pericolo ancora prima di vederlo e il film continua a construire e ampliare questa percezione sfruttandola per creare tensione da scaricare poi nel momento in cui davvero Hulk si scatena, evento che per questo e altri ottimi motivi avviene solo dopo la metà del film.

Scena successiva, Calcutta. Nelle prime immagini vediamo Banner in casa di gente malata che si lava le mani, uno stetoscopio in tasca, la bambina che lo prega di seguirla. A cosa serve questa breve scena? A far sapere al pubblico cosa ci fa Banner a Calcutta e perchè. Fa il medico. E non lo fa da ieri visto che parla un po’ la lingua. E non lo fa per arricchirsi, visto che la casa in cui lo vediamo è misera e visto che segue una bambinetta in una baraccopoli invece di un grassone in una limousine. Sappiamo anche che Banner è di animo gentile, infatti anche se ha da fare ed è ormai notte si lascia pregare. Prima di arrivare alla casupola una camionetta passa davanti a Banner e alla bambina. Banner che fa? Ferma la bambina, un gesto che pare di protezione e convince sul fatto che Banner è attento a chi è intorno a lui, e poi si volta, nasconde il viso, segno che non ha nessunissima intenzione di farsi notare e che sa benissimo che in giro c’è gente che lo cerca. In pochi secondi abbiamo il quadro del personaggio, tutto attraverso le azioni e con ben poco spreco di parole.

Riporto le battute della scena in inglese, tanto è facile.

La scena comincia con la bambina che s’infila per la finestra e con Banner che resta lì con un pugno di mosche in mano.

“You should have got paid up front. Banner”

Questa battuta di Banner serve a due scopi. Uno è di mettere bene in chiaro chi è il personaggio. C’è sempre qualche spettatore ritardato, o qualcuno che conosce molto poco il MondoMarvel. Banner dice “sono io Banner!” La seconda funzione, più interessante, è di mostrare una reazione. Questo vale per ogni reazione e ogni battuta di un personaggio. Personaggi diversi avrebbero reagito diversamente alla stessa situazione. Qualcuno avrebbe rincorso la bambina, qualcuno sarebbe mandato un improperio, qualcuno si sarebbe incazzato. Banner manda un sospiro indispettito e dà un primo assaggio della sua autoironia “mi son fatto gabbare con tutte le scarpe”.

“You know, for a man that is supposed to be avoiding stress you picked a hell of a place to settle.”

L’Agente Romanoff esce dall’ombra e mette subito in chiaro una cosa “io so chi sei” da cui deriva l’ovvio “non sono qui per nulla”. Naturalmente non è stata mandata l’Agente Romanoff a caso, è brava a manipolare (ce lo ha appena mostrato nella scena dell’interrogatorio) e non ha un aspetto aggressivo. E’ nel suo interesse turbare Banner il meno possibile e infatti dice quello che deve dire scegliendo parole gentili, parlando con un tono rilassato, vestendo un abito semplice che mostri che non porta armi. Ma la sostanza non sfugge a Banner, che la studia per un istante con l’espressione di chi sa di essere in trappola, e lo dirà esplicitamente più avanti.

“Avoiding stress isn’t the secret”

Qui Banner sta da una parte mettendo giù le carte, non nega, non dice “non so di che sta parlando”, dice “va bene, cosa vuoi?”, e lo dice rispondendo con un tono tranquillo al tono tranquillo di lei. E’ una risposta accondiscendente da una parte, guardinga dall’altra. Il che dà un indizio caratteriale, Banner è un tipo mite, ma non si fida. Contemporaneamente Banner sta, forse involontariamente, facendo un’affermazione “sai chi sono, ma non mi conosci così bene”.

Altra funzione di questa battuta è quella di creare un rimando all’interno del film. Inizia qui, viene ripreso a metà film quando Banner dice, sempre alla Romanoff, “vuole sapere qual’è il mio segreto? Come faccio a mantenere la calma?” e trova il suo apice in uno dei momenti più fighi del film “è questo il mio segreto, Cap. Io sono sempre arrabbiato” SMASH!

“Than what is it? Yoga?”

Notare come lei non vada subito al punto. Gli lascia il tempo di adattarsi alla situazione e di guidare la conversazione come preferisce. Questa battuta significa “io non farò nulla, prendi in mano tu la situazione”.

“You brought me to the edge of the city, smart. I assume the whole place is surrounded.”

La reazione di Banner prova che l’Agente Romanoff si sta comportando nel modo giusto. Anche se lei non ha fatto niente per essere considerata una minaccia, a parte ingannarlo e saltare fuori dal nulla, Banner si tormenta le mani, sa di essere in una trappola, si guarda in giro, e indietreggia. Un atteggiamento di chi è a disagio, e la rabbia è un caso estremo di disagio. Da notare la posizione dei due personaggi, Banner è spalle al muro, l’Agente Romanoff è in mezzo alla stanza a una certa distanza.

Banner qui sta inquadrando la situazione, mostrando sia al pubblico che all’Agente Romanoff di non essere uno sprovveduto. Si potrebbe pensare che anni passati a cercare di non farsi mettere in gabbia lo abbiano allenato a non fidarsi.

“Just you and me.”

Manipolatrice. Mente spudoratamente. Certo che se vuoi tenere Banner tranquillo l’ultima cosa che vuoi è dirgli che c’è un plotone armato fino ai denti fuori dalla finestra. Non so se sia stato fatto apposta, qui interpreto liberamente, ma è in questa battuta che la Romanoff si toglie lo scialle. Come a dire “vedi? non ho nulla da nascondere”.

“And your actress buddy? Is she a spy too? Do they start that young?”

Notare come è ancora lui a condurre la conversazione. Banner non è affatto convinto, ma lascia cadere la faccenda che il posto è circondato. Qui il movimento del personaggio è tutto interno, Banner sta pensando, parla della ragazzina per associazione con chi altri lo sta aspettando fuori, e di fatto prende tempo. Quello che vuole dire lo dirà fra un paio di battute quando la Romanoff continuerà a non fare nulla.

“I did.”

La Vedova Nera concede qui qualcosa di sè, mostrando a Banner quasi un punto debole. E’ un ottimo sistema per cercare un contatto con chi non si fida di te. Intanto il pubblico impara qualcosa anche su di lei.

“Who are you?”

“Natasha Romanoff”

Naturalmente gli dice il suo nome. In fondo lei è un’amica. Lo è davvero probabilmente, o perlomeno lo sarà, ma questo Banner non lo sa.

“Are you here to kill me, ms Romanoff? Because that’s not going to work out, for everyone.”

Ecco quello a cui Banner girava intorno. E’ interessante venire a sapere che quando Banner incontra qualcuno che conosce la sua identità, anche se è una donna pulita, apparentemente disarmata e apparentemente sola, la prima cosa che pensa è che lo voglia uccidere. Allo stesso tempo si nota la confidenza che Banner ha con se stesso. Sa quali saranno le conseguenze se lei lo attaccherà e lo dice esplicitamente, non come una minaccia, ma come un’informazione, “non funzionerà per nessuno di noi”. E’ preoccupato di scatenare Hulk più di quanto lo preoccupi l’Agente Romanoff.

“No, of course not. I’m here on behalf of SHIELD”

La Romanoff comincia a dare informazioni sul perchè è lì. Sempre una cosa alla volta, con calma.

“SHIELD…”

Banner sa chi sono, e non è del tutto chiaro se la cosa gli piace o meno. Il modo in cui lo dice punta su “devo capire un po’ dove vuole andare a parare, ma poteva essere peggio”

“How’d they find me?”

“We never lost you, doctor. We kept our distance, we even helped keep other interested parties off you scent”

Ancora, questa battuta dice “Puoi fidarti, vedi, se avessimo voluto avremmo potuto, e invece ti abbiamo lasciato stare. Ti abbiamo anche aiutato. ”

“Why?”

Questa domandina nasconde l’intelligenza di Banner. “Non mi avete aiutato così, per niente, giusto perchè vi sto tanto simpatico. Quindi cosa volete?”

“Nick Fury seems to trust you, but now we need you to come in.”

“What if I say no?”

Banner non chiede neppure di cosa si tratti. La cosa più importante per lui è capire se e fino a che punto è libero di dire di no. Sa che non può veramente dire di no allo SHIELD, non come Banner, il punto è se dovrà seguire la Romanoff come prigioniero o come pari. Banner avrà una scelta vera da fare nel film, ad un certo punto dovrà davvero fare liberamente la scelta se dire di sì o di no.

“I’ll persuade you.”

Lui deve andare. Il tono affabile significa che l’Agente Romanoff preferisce di gran lunga le buone alle cattive.

“And what if the other guy says no?

Vediamo la prima volta come Banner chiama Hulk. Da una parte Banner vede Hulk come qualcos’altro, qualcosa di separato da lui, dall’altro invece è chiaro che Hulk è parte di lui. Banner direbbe di no, anche Hulk direbbe di no. Qui vengono fuori le sfaccettature contraddittorie del personaggio, dietro la superficie posata, razionale, gentile, dietro un personaggio che si nasconde e vuole solo essere lasciato in pace, il pericolo è pronto a venire alla superficie nella piu’ rabbiosa delle maniere. Si capirà benissimo dopo, ma gia da qui si vede che Banner ha in qualche modo fatto i conti con la sua condizione. Banner probabilmente non può dire di no alla Romanoff, ma Hulk potrebbe. E cosa potrebbe fare la Vedova Nera contro Hulk?

“You’ve been more than a year without an accident, I don’t think you want to break that streak.”

La Vedova Nera aggira la domanda, che cosa potrebbe dire? Scatenare Hulk è una pessima idea, è proprio quello che vuole evitare. Non parla dell'”other guy”, resta su Banner dicendo che lui decidera’ di non scatenare Hulk. E dicendolo va a prendere il cellulare, allontanadosi da Banner. La situazione è stata chiarita. Banner potrebbe dire di no, ma non lo vorrebbe.

“Well, I don’t always get what I want.”

E qui Banner dice che non sempre riesce a tenere a bada l'”other guy”. Di nuovo non suona affatto come una minaccia, anzi, c’è un velo di tristezza e di rammarico nel modo in cui lo dice.

“We are facing a potencial global catastrophe”

Posto nella più convincente delle maniere che non è lì necessariamente per fargli del male, l’Agente Romanoff prende in mano la conversazione e comincia a dire quel che deve dire.

“Well, those I actively try to avoid.”

Questa battuta fuonziona meglio in inglese. Esprime meglio l’autoironia di Banner. Sta parlando di se stesso. Chi è in grado di fare autoironia ha accettato se stesso. Banner non è vittima di Hulk. Banner è Hulk e Hulk è Banner, man mano che il film va avanti sarà sempre più chiaro.

“This is the Tesseract. It has the potencial energy to wipe out the planet.”

L’Agente Romanoff si siede, un gesto di sicurezza e di fiducia. “Sediamoci intorno a un tavolo a parlare”. Notare che qui si stanno passando delle informazioni a Banner. Visto che passare informazioni è noioso, specie se come in questo caso il pubblico già conosce gli eventi, le informazioni passate sono essenziali, “it has the potencial energy to wipe out the planet”, punto, fine, niente Loki, niente di niente. Il pubblico sa già quel che deve sapere, qui bisogna solo dire che adesso anche Banner lo sa. In più le informazioni sono inserite in mezzo a una scena in cui il punto focale sono i personaggi, non le informazioni stesse. Altrimenti detto, c’è poco raccontato in molto mostrato.

“What does Fury want me to do? Swallow it?”

Ironia. Sempre su Hulk. Banner non si siede, anche se c’è un’altra sedia, e tiene il tavolo tra sè e lei.

“He wants you to find it. It’s been taken. It emits a gamma signature that is too weak for us to trace. Nobody knows gamma radiation like you do. If there was, that’s where I’d be.”

Qui l’Agente Romanoff mette bene in chiaro che vogliono Banner per le sue qualità di scienziato, nient’altro. Anzi, se avessero avuto una scelta non sarebbero andati da lui dal principio.

“So Fury isn’t after the monster.”

Banner ha recepito il messaggio. Notare che Banner comincia qui a riprendere le redini della conversazione, ma adesso ha un approccio diverso, sta forzando, va verso lo scontro.

“Not that he’s told me.”

Risposta da vera spia. Leggasi: “Io sono sincera. Se poi le cose vanno diversamente non prendertela con me”.

“And he tells you everything.”

La ricerca dello scontro è velata dal tono di voce basso, ma c’è. Se l’aspetto dimesso, il non guardare sempre negli occhi l’interlocutore, il tono di voce o la gentilezza avessero ingannato, Banner è capace dello scontro, e questo perchè è sicuro di sè, non si trasformerebbe in Hulk ma in un micio molto sovrappeso se così non fosse.

“Talk to Fury. He needs you on this.”

“He needs me in a cage.”

Banner sta mettendo l’Agente Romanoff in un angolo.

“Nobody is going to put you in a…

Si allunga per prendere il cellulare…

“Stop lying to me!”

Chiunque si sia inventato quest’uscita di Banner, Joss Whedon immagino, ha tutta la mia stima. Spaventa e sorprende lo spettatore. Lo spettatore non vive queste emozioni per interposto personaggio, trabuzza davvero gli occhi e salta sul serio sulla poltrona. La reazione emotiva è il modo migliore per insegnare qualcosa allo spettatore, Banner è pericoloso, Banner è imprevedibile. Banner non è passivo, sa usare la sua rabbia, non aspetta necessariamente che gli altri lo facciano arrabbiare, è lui che si arrabbia se necessario. Il pericolo, già anticipato nella scena dell’interrogatorio, è riflesso di nuovo dalla reazione dell’Agente Romanoff, che tira istantaneamente fuori la pistola. La sua espressione è chiara, ha paura.

“I’m sorry, that whas mean. I just wanted to see what you’d do. Why don’t we do this the easy way, where you don’t use that, and the other guy doesn’t make a mess. Ok? Natasha?”

Banner è un dritto. Ha messo nel sacco l’Agente Romanoff. L’ha spinta dove voleva. Voleva una reazione sincera e l’ha ottenuta. Per il pubblico questa è una brutale conferma di quello che già si era intuito, Banner non nasconde affatto di essere Hulk, conosce il limite e lo usa. Qui sta giocando con l’immagine che gli altri hanno di Hulk e di quello che lui potrebbe fare. E subito si scusa, torna al tono sussurrato di prima, con un sorrisetto riconosce di essere stato uno stronzo, e adesso è lui a mettere in chiaro che se nessuno lo minaccerà, l'”other guy” non combinerà un casino. Più sicuro di sè di così si muore.

“Stand down. We are good here.”

“Just you and me.”

La chiusura è bella perchè riprendendo una battuta centrare della scena chiude il cerchio.

Questa scena fa tutto quello che deve fare e qualcosa di più. Il personaggio è presentato, chiunque abbia un minimo di intelligenza emotiva ha inquadrato bene Banner, l’ha capito, e dunque comincia a costruire un legame emotivo che è in definitiva il trucco perchè un personaggio funzioni, perchè il pubblico si appassioni a quello che fa e soffra e si entusiasmi insieme a lui. Il motivo per cui uno dei momenti che preferisco, e che un po’ tutti amano, è quando Hulk spacca il muso a quella specie di tartaruga dinosauresca, “io sono sempre arrabbiato” SMASH! (oltre alla scena in cui strapazza Loki come un sacco di noccioline, la più hulkesca di tutte) non è solo perchè è spettacolare, è perchè senti la catarsi di tutto il personaggio chiudersi su quel momento.

La 41esima regola per scrivere bene di Umberto Eco

Girando per l’Internet continuo a trovare le “40 regole di Eco” tratte da La bustina di Minerva, e visto che assomigliano alle regole per scrivere di questo celeberrimo manuale sullo stile, le riporto anch’io.

Queste regole evidentemente non sono nate per la sola narrativa, ma per la scrittura in genere, per cui alcune non si applicano alle lettera. Io mi rifaccio sempre alla scrittura per la narrativa.

1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.

Non so perchè questa regola stia per prima. Perchè Allitterazione comincia con la A? Evitare le allitterazioni è una buona regola, e per un motivo preciso: spostano l’attenzione del lettore dalla storia, dove dovrebbe stare, alla scrittura stessa, che in sè è solo un mezzo. Vedi il principio di scrittura trasparente.

2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.

Dove vai se la grammatica non ce l’hai?

In narrativa la grammatica è: ciò che se non c’è non vale neppure la pena continuare a parlare. Con un’eccezione però. Errori grammaticali hanno un perchè quando messi in bocca a personaggi di basso livello culturale. Nessuno si aspetta che la casalinga di Voghera con la terza elementare usi i congiuntivi. Farglieli usare correttamente sarebbe un errore.

3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

Sante parole! Le frasi fatte fanno cadere le unghie dei piedi. A meno che, di nuovo, non sia un personaggio a parlare così e vengano usate a fini ironici… e comunque, ricordatevi che non ci sono più le mezze stagioni.

4. Esprimiti siccome ti nutri.

Ottimo consiglio.

5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.

Disturbano anche me. In particolare gli americani hanno come sport nazionale l’invenzione di sigle, pare li disturbi enormemente chiamare le cose con il nome per intero.  Va bene CIA, ma certe volte pare parlino in codice.

6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.

Vero. Nella scrittura per la narrazione le parentesi raramente si usano. Anche perchè, quando ben serve fare un inciso, basta piazzare due virgole al posto giusto.

7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.

Ah, i puntini… stramaledetti puntini… come tutti segni di interpunzione usati… alla cavolo!!! Che è mica questo il modo di scrivere????? I puntini di sospensione, così come i punti esclamativi, vanno usati con attenzione. Quando sono troppi è segno che lo scrittore stesso… insomma… non è che sappia esattamente…

8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.

Stesso discorso del punto 7, non sovraccaricare il testo di segni inutili. A parte quando le virgolette indicano un dialogo, si capisce.

9. Non generalizzare mai.

Questa regola è così generale che non capisco bene cosa voglia dire. Pare essere anche molto esplicativa. Da un punto di vista raccontato non si capisce, da un punto di vista mostrato invece sì. Capisco ma non capisco, mmm…

10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.

Eco, ti bacerei sulla fronte.

11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu”.

Spero a nessuno venga in mente di imbottire un romanzo di citazioni.

12. I paragoni sono come le frasi fatte.

Non direi che i paragoni siano minestra riscaldata, dipende dal paragone. E’ vero però che rischiano di essere banali e raccontati. Le similitudini, che sono una forma di paragone, se usate bene possono invece risolvere la situazione, non le eliminerei certo dall’equipaggiamento dello scrittore.

13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).

Un altro bacio in fronte. Mai annacquare il vino.

14. Solo gli stronzi usano parole volgari.

Non è vero. Anche chi è incazzato, chi si è appena preso una martellata sulle dita, chi non è stato educato a badare alla lingua, chi non ha voglia o interesse a mostrarsi perbene, chi guarda una partita di calcio con gli amici e vince la squadra sbagliata, chi si trova in un contesto dove la volgarità non stona.

Sono contraria alla categoricizzare le parole come “buone” e “cattive”. Le parole volgari fanno parte del vocabolario come tutte le altre, e come tutte le altre vanno usate nel modo e nel momento giusto. L’unico metro di giudizio che si può dare sulle parole è la loro efficacia, e in questo senso stronzo è molto più bella di categoricizzare.

Detto questo, le volgarità scritte hanno un peso maggiore delle volgarità parlate. E’ bene andarci cauti con le parolacce.

15. Sii sempre più o meno specifico.

Bacio con schiocco questa volta.

16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.

Eheh, grazie Eco per la sottigliezza. Questa regola cade sotto “non negare per affermare”, “non usare più parole del necessario”. Discorso a parte se c’è un’intenzione ironica.

17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.

Le frasi con una parola sola hanno una ritmica particolare che di rado ha un senso usare, ma arrivano momenti in una narrazione dove serve proprio quel ritmo. Non c’è nessun motivo pratico per eliminarle del tutto.

18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.

La regola è “una metafora deve aiutare il lettore, non incasinargli il cervello”. Una metafora eccessiva più probabilmente incasina il cervello, come lo fanno metafore fuori tono o inutili.

19. Metti, le virgole, al posto giusto.

Dove vuoi andare se la punteggiatura non ce l’hai?

20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.

Vedi punto 19.

21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.

Non capisco se vuole dire di non usare il dialetto o se vuole dire di non usare il dialetto anche se l’italiano non lo sai. Comunque sia, è chiaro che il dialetto va usato solo se si ha un buon motivo e solo se lo si sa gestire.

22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.

Vedi punto 18.

23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?

No, no, e poi ancora no. Sono paro paro alle frasi fatte. (Ooops, ho fatto un paragone!)

24. Sii coinciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinchè il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

Sorvolo sul “potere dei media” e rimando al punto 13.

25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.

E qui si ringrazia la Ciurma della Crusca.

26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.

Vedi punto 2.

27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!

Vedi punto 7 e punto 13.

28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.

Che odio le esse plurali inglesi in italiano! mamma mia… o parli in italiano o parli in inglese, vanno bene entrambe per me, ma scegli! Hai usato un termine straniero, ma che bravo, e ci hai pure fatto il plurale, ma complimenti al gegnio!

29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.

Fai che scriverle giuste tutte le parole, va’.

30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.

Altro bacio in fronte. E questa stravale anche per la narrativa. I nomi dei personaggi sono trasparenti, usateli. State scrivendo un romanzo, non le parole crociate.

31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).

Eheh. Beh, questa sta sotto il “non prendere per il culo il lettore”.

32. Cura puntigliosamente l’ortograffia.

Vedi punto 30. Gli errori di battitura scappano sempre, ma limitarli in numero è un obiettivo perseguibile.

33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.

Stucchevole, stucchevole. Tanto più in una narrazione, dove una preterizione, a meno che non sia pronunciata da un personaggio o da un narratore in prima, presuppone che l’autore sia entrato a viva forza nella storia, il che è una delle peggiori bestemmie in narrativa.

34. Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.

Bisogna andare a capo al momento giusto. E il momento giusto cambia a seconda del ritmo della narrazione, sovente o non sovente che sia.

35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.

Vedi punto 33.

36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.

Questa non è scrittura, questa è logica. Questa regola vale sempre. Che si scriva, si parli o si ribollisca fra sè come una pentola di ceci. (Tre congiuntivi sulle tre coniugazioni, mi sento realizzata).

37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.

Ovvia conseguenza pratica del punto 36.

38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonchè deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.

Aahahahh, eh ehm. Alla faccia della scrittura trasparente.

39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.

Certo. Anche se vista la logorroicità media mi sa che non si corre il rischio.

40. Una frase compiuta deve avere.

Vedi punto 2.

Fine delle regole di Eco.

E… e la regola 41?

La regola 41 Eco l’ha ripetuta 40 volte all’interno di ciascuna delle 40 regole. Non la indovinate?

Mostrare è meglio di raccontare.

E se lo dice Eco è vero per forza.

Lista delle scene – Concorso Hydropunk

Ordunque, avevo parlato del concorso Hydropunk qui e avevo detto che forse avrei partecipato. Beh, l’altra settimana, alleluja, ho finito di buttare giù la prima stesura, e ieri, altro alleluja, ho finito la prima revisione.

Lo stile era un crimine contro l’umanità. C’erano cose che mi erano venute in mente a metà e dovevo tornare indietro ad aggiustarle. E… era di circa 1000 parole troppo lungo.

Sforare di mille parole su un massimo consentito di 5000 non è male. Per fortuna nella prima stesura c’è sempre una marea di fuffa e di ripetizioni.

Ho però fatto una cosa che non avevo mai provato, ho listato le scene del racconto per visualizzarle meglio. Essendo “solo” 11 non è un gran problema, ma visto che voglio applicare lo stesso sistema anche a un lavoro che di scene ne ha abbondantemente oltre il centinaio, ho fatto qui la prova.

Ecco la lista delle scene del racconto.

Numero Titolo Lunghezza Tensione Tipo
1 Dragamine 560 4 Descrizione-Dialogo
2 La Margherita 509 6 Dialogo
3 Cabina del capitano 309 5 Descrizione-F. interiore
4 I fuochi fatui 1089 8 Azione-Descrizione
5 La Sirena 570 7 Dialogo-Azione
6 La bonellia 534 6 Dialogo-F.interiore
7 L’attacco 844 8 Azione
8 Annegamento 313 9 Azione
9 Lo scafandro 375 7 Descrizione-Azione
10 Il mondo delle bonellie 601 8 Descrizione
11 DeLuca 252 10 Descrizione-Azione

Numero e Titolo delle scene non hanno importanza tecnica, servono solo per contarle e identificarle.

Il numero di parole permette di vedere a occhio i rapporti di lunghezza. Essendo questi numeri relativi alla prima stesura è naturale che siano un po’ traballini. La prima stesura è disordinata e lo è in maniera disomogenea. Revisionando, alcune scene si sono sensibilmente accorciate, altre sono scese solo di una manciata di parole. In ogni caso il rapporto tende a rimanere simile. “I fuochi fatui”, la scena più lunga, è calata da 1089 parole a 843, ma resta la scena più lunga. La seconda scena “La Margherita” è passata da 509 a 497, ma in realtà è calata anche lei di almeno un centinaio di parole, non si nota solo perchè nella revisione ho aggiunto qualcosa che prima non c’era. Mi ha fatto impressione l’ultima scena, che nonostante sia la scena con maggiore tensione (è quel che spero io perlomeno) non solo era in partenza la più breve, ma è calata ancora da 252 a 197. Per dire, la scena più importante era già la più breve e ancora non aveva bisogno di tutte quelle parole. Anzi, con meno parole funziona meglio. Ciò che conta è il contenuto e se un numero inferiore di parole trasmettono lo stesso contenuto significa che la scrittura è diventata più densa, più forte. Troppe parole sono come l’acqua nel vino.

Altra cosa interessante da fare è dare un “punteggio” da 0 a 10 alle scene in base alla loro tensione. La tensione all’interno delle scene non è uniforme. Nella stragrande maggioranza dei casi tende ad avere dei picchi intermedi e a raggiungere l’apice alla fine. Il punteggio è assegnato considerando la tensione media, ma resta una valutazione soggettiva. Diagrammino.

In ascisse le scene, in ordinate la tensione. L’andamento della tensione dall’inizio alla fine della narrazione è simile all’andamento interno di una qualunque scena. Non è uniforme, parte a un livello più o meno alto, ha dei picchi intermedi e raggiunge il suo massimo alla fine.

La tensione delle scene è una conseguenza del ritmo della narrazione, cioè della velocità con cui i fatti sono narrati. Non è detto che a un ritmo più lento corrisponda una tensione minore, si pensi alla “quiete prima della tempesta”, la situazione in cui non succede niente, ma sta per succedere qualcosa. E’ invece sempre vero che quello che si percepisce leggendo non è tanto la velocità quanto l’accelerazione. Se pensate di creare più tensione andando veloci sbagliate, la tensione è frutto soprattutto delle accelerazioni. Questo significa che non si può andare sempre alla stessa velocità, rapida o lenta che sia, e non si può sempre accelerare, o ad un certo punto si arriva a un ritmo insostenibile per chi scrive e nevrotico per chi legge. Così come bisogna accelerare, così bisogna frenare. Da qui i picchi intermedi.

Immaginate che il vostro gatto faccia cadere un piatto nel bel mezzo della notte e che quello si sfracelli a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state sognando pacifici, accoccolati nel vostro nido di coperte. Farete un salto in aria, vi verrà la tachicardia, stramaledetto gatto! E se invece qualcuno facesse cadere un piatto nel bel mezzo di una discoteca e quello si sfracellasse a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state urlando nell’orecchio del vostro migliore amico che quella sera volete sbronzarvi fin nelle scarpe perchè la ragazza vi ha mollato, a malapena gli concedereste uno sguardo al piatto. Ma è lo stesso piatto che cade allo stesso modo. Più del rumore assoluto conta il rumore relativo. Certo che se fate esplodere una bomba H…

L’ultima colonna della tabella descrive la scena in termini tecnici. Non dice “qui muore il protagonista”, dice che quella scena è composta in prevalenza da dialogo piuttosto che da azione e quindi dà un’idea della tipologia di scena. Le scene d’azione sono più spesso cariche di tensione, ma non è detto che una scena prevalentemente descrittiva non sia altrettanto tesa o che non lo sia una scena piena di dialogo.

Conto finale della parole alla fine della revisione: 5000 tonde tonde. Lascerò passare qualche giorno e farò un’altra revisione, confido che le parole resteranno suppergiù quelle.

Qui si può leggere il racconto.

Scuoiare l’immagine – esercizi di immaginazione

Dopo aver letto l’articolo su Tapirullanza sono andata a spulciare il blog sugli esercizi di dilatazione di McClark.

Personalmente non ho mai preso ispirazione da dipinti e disegni, anche se mi piace dipingere e adoro l’arte pittorica, specialmente se surreale o comunque a forte gradiente immaginativo (per dire, mi piace Dalì, molto meno Giotto). Per ora ciò da cui ho tratto maggiore ispirazione sono i sogni, ma d’altronde che importa da dove si pescano le idee? Le idee sono a buon mercato. Più difficile è tenere l’immaginazione elastica e allenata e questo è il proposito degli esercizi di dilatazione. Prendere un’immagine e aprirla dal di dentro per scovare cosa nasconde, lo chiamerei “scuoiare l’immagine”.

McClark è un illustratore, molto bravo tra l’altro, e propone ogni settimana degli esercizi di dilatazione sui propri lavori aggiungendo a ciascuno un breve paragrafo scritto per dare spunto alla narrazione. La cosa mi sembra così intelligente e le illustrazioni sono così fighe che proverò anch’io a fare degli esercizi di dilatazione. Dei racconti, non molto lunghi, su un 5000 parole come massimo, ciascuno a partire da un’immagine.

Visto che di immagini suggesstive è pieno il mondo, mi limiterò a usare le illustrazioni di McClark. E non userò le necessariamente le prossime che pubblicherà in ordine, ma sceglierò quelle che mi piacciono di più. Se un’immagine non fa scaturire nessuna sensazione in chi la guarda, il proposito degli esercizi di dilatazione perde di senso.

Il punto fondamentale sarà quello di allenare e liberare l’immaginazione, per cui per me l’esercizio sarà di rendere i racconti il più immaginifici possibile nel limite della coerenza interna. Non terrò conto delle scritte di McClark che accompagnano le immagini, userò le immagini e le immagini soltanto. Ho già adocchiato alcune illustrazioni su cui lavorare. Quella di lunedì scorso non è male.

L’unico dubbio è che è un po’ troppo precisa. Confrontata ad altre è un’immagine “facile” da interpretare. C’è un gigante che pare essersi appena risvegliato e una città in rovina. Visto che perde sangue potrebbe essere che l’hanno attaccato e che la distruzione della città non sia che un effetto collaterale. Se l’interpretazione è immediata vuol dire che l’uso dell’immaginazione è limitato.

Questa mi piace particolarmente, bellissima composizione, anche se è “facile”. Si poteva persino usare per il concorso di Hydropunk!

Guardate invece questa.

Questa non racconta alcuna storia, è suggestiva, ma non suggerisce molto, è già complicato capire che cosa è! Se si vuole costruire un racconto su questa bisogna per forza mettere in moto l’immaginazione o non se ne cava un ragno dal buco.

Questa mi piace da matti.

Ha un che di poetico, è malinconica. Lasciate stare lo scheletro, il teschio, bla, bla, questi sono oggetti. Io dico l’impressione. E’… triste e dolce insieme. Ecco, è questo che serve per scuoiare l’immagine, un’impressione. Qui c’è anche il contrasto tra la natura dell’impressione e quella del soggetto, il che non guasta. Quest’immagine penso di usarla.

Questa è magnifica, una delle mie preferite, e praticamente perfetta per l’esercizio.

Qui non c’è niente da capire, a parte che fa freddo! C’è solo da inventarci sopra.

Penso che la prima sarà invece questa qui. Stupenda, dovrei mettere una gigantografia in camera.

E’ l’esercizio di dilatazione numero 8.

Body trauma – manuale

Spesso bisogna scrivere di cose che non si conosce. E’ inevitabile, se scrivi solo di ciò che conosci finisci per scrivere un romanzo sui gerani del tuo balcone. Quando capita fra le mani un argomento che non si conosce bisogna avere santa pazienza e scartabellare un po’. A volte è essere divertente, capitano argomenti interessanti in cui ci si perde.

Era la mia speranza con questo manuale Body Trauma scritto da David Page per la Writer’s Digest. Ferite, incidenti, pallottole, maciullamenti e primo soccorso promettevano di essere non solo utili, ma anche interessanti.

Body Trauma continene meno informazioni di quel che sperassi, specie per quanto riguarda i traumi, cosa succede quando una persona/personaggio rimane ferito, quali sono le conseguenze a lungo termine e come un ferito può essere curato, anche con pochi mezzi. Di tutto questo il manuale parla, ma ne parla poco e in maniera troppo generica per i miei gusti. In certi casi dice cose che sono di dominio pubblico e si ferma lì (oddio, magari in america non sono cose poi così ovvie, chissà). La cosa su cui insiste parecchio, e vi consiglio la lettura se è questo che vi interessa, è l’organizzazione e il funzionamento del primo soccorso. Chi arriva primo sulla scena dell’incidente, che cosa deve fare, attraverso quali passaggi i medici diagnosticano il paziente appena arrivato in ospedale, come sono organizzate le sale operatorie, quali sono i possibili traumi a quale la loro gravità. C’è da dire che Page ovviamente fa riferimento al sistema di primo soccorso americano e, benchè immagino che certi meccanismi siano molto uniformizzati, potrebbero esserci differenze col sistema italiano. Di certo qui il paziente non deve dare il numero di assicurazione.

Page ha uno stile semplice, diretto, colloquiale, il che va bene, ma ha anche un difetto comune tra gli americani, quello che quando leggi ti dà l’impressione che l’autore ti tratti come un minorato mentale, la ripetitività. Page ripete e ripete le stesse cose, magari aggiungendoci un pezzettino. E’ fastidioso, oltretutto non parla certo di concetti difficili, per la maggior parte si tratta di elenchi, tutta roba che si capisce perfettamente alla prima. La ripetitività potrebbe essere anche la conseguenza della disorganizzazione del manuale. Salta di palo in frasca, poi cambia capitolo e torna indietro ridicendoti quello che c’era nel capitolo prima.

In buona sostanza non è da buttar via ma speravo molto meglio.

Altro manuale della stessa collana di Body trauma che mi sono messa in lista di lettura è Deadly doses, questo dedicato al mondo dei veleni. Tra l’altro devo spulciarlo per un particolare in un progetto che sto scrivendo, devo trovare un veleno con determinate caratteristiche. Speriamo bene.