Fuochi fatui IV – Hydropunk

Ed ecco il finale. Ohi ohi.

Fuochi fatui I

Fuochi fatui II

Fuochi fatui III

[…]
Chiarizia respirò a fondo, prese slancio, sganciò l’arpione e si tuffò nel mare nero.
Sprofondò nell’acqua senza curarsi di tornare a galla, imbracciò l’arpione e sparò alla cieca l’unico colpo. I vestiti e gli scarponi gli impacciavano i movimenti, lasciò andare l’arpione e nuotò verso l’alto. Sfiorò la superficie, sbuffò e prese un mezzo sorso d’aria. Le creature lo avvolsero e lo trascinarono di sotto. Chiarizia scalciò, afferrò la carne viscida e dura come acciaio che gli avviluppava le gambe. Nel taschino, sotto la giacca, infilò la mano a destra e a sinistra tra i lembi della camicia, c’era il coltellino, gli mancava l’aria, doveva salire, gli presero il polso sinistro, con l’unica mano si affannò a salire fra il gorgoglio delle bolle d’aria, l’acqua gli premette nelle orecchie, nuotò e le creature lo tirarono giù. Serrò i denti per costringersi a non respirare l’acqua, si tappò la bocca con la mano libera, e sprofondò. Le creature si strinsero ai polsi e alle caviglie, strisciavano e tiravano. Chiarizia si dibatté, graffiò la carne, schiaffeggiò l’acqua, lottò contro gli spasmi dei polmoni che invocavano aria. Gli strapparono la mano da davanti la bocca. Doveva respirare, il diaframma gli rimbalzava fino in gola, perse gli scarponi, doveva respirare. Aprì la bocca e la richiuse, inghiottì acqua e bolle, il naso e la fronte bruciarono invasi d’acqua salata. Percosse l’oscurità, si contorse, doveva respirare, si liberò una mano, la ripresero, lo tirarono giù. Chiarizia respirò un sorso d’acqua.
 
Tossì. Sputò saliva acidula mista al sapore amaro del mare.
Faceva freddo ed era fradicio. Era in piedi, legato per le spalle a qualcosa. Si mosse e scoprì di avere pareti tutt’intorno a sé. Era dentro a qualcosa.
Nel buio, davanti a lui, fluttuavano milioni di piccole luci. Un soffio d’aria fredda sibilava dietro l’orecchio destro. Tastando le superfici trovò un pulsante triangolare. Un faretto gli si accese sopra la testa.
Era in uno scafandro. Uno scafandro di metallo rivestito da uno strano cuoio del colore della pancia dei pesci. All’altezza dell’ombelico c’era uno sportello stagno che Chiarizia immaginò servisse per passare oggetti da dentro a fuori. Cibo e acqua forse. All’altezza del viso un oblò dava sull’oscurità.
Tossì. Di fianco al primo c’era un secondo pulsante che accendeva le luci esterne dello scafandro. Chiarizia spense le luci interne per vedere meglio. Dei cavi fissati allo scafandro lo tiravano in basso.
Erano state le creature a metterlo lì dentro. Fece per scrollarsi, provare a liberarsi, poi pensò che essere sperduto negli abissi dentro una bara, senza sapere qual’era il sotto e quale il sopra, avrebbe significato l’agonia.
Aveva perso la pipa. In tasca trovò solo un pugnetto di tabacco zuppo di acqua di mare.
«Maledizione, maledizione, maledizione…»
Qualcosa gli dava fastidio sulla schiena. Era lo zaino. Contorcendosi, maledicendo le creature, lo scafandro e la ciccia di troppo sulla pancia se lo portò davanti. Lo aprì. Cinque mine, grosse come il pugno di una mano, erano intatte. Le rimise via.
Gli formicolarono le dita. L’immagine del corpo di Martinozzi gridava vendetta. La sua pipa, il regalo che gli era più caro, gridava vendetta. Il capitano DeLuca gridava vendetta.
Ascoltando il sibilo dell’aria a pressione, scrutando nell’oscurità vuota dell’abisso, Chiarizia aspettò di rincontrare le bestie.
 
Una luce azzurrognola crebbe dal basso disegnando contorni di colline e di edifici sottomarini. Angoli e archi di luce vibravano come fossero vivi. La corrente frusciò sulle lamine di metallo.
Sprofondando, Chiarizia passò accanto a una struttura di metallo più alta di una nave da crociera al cui interno girava lenta un’elica spinta dalla corrente. Pareva l’elica di una nave, ma non ne esistevano di così grandi.
Segnalati da luci, una fila di fumaioli s’innalzava nell’oscurità fuoriuscendo da un edificio senza tetto, con pareti spioventi e un lato a forma di prua al cui interno ingranaggi e catene emettevano tonfi e stridii.
Dalla fabbrica, una colonna di vapore e fuoco si accese nell’acqua e scomparve in un bagliore.
Chiarizia scese seguendo le pendici della collina verso una spianata e vide le creature. Vennero per sganciare i cavi. Avevano la pinna prensile, la proboscide, e il lungo braccio collegato al corpo, una palla grigiastra e bitorzoluta cinta da appendici semitrasparenti che ondeggiavano avanti e indietro. Una fila di puntini neri si muovevano a scatti sulla cima del corpo e alla base della pinna prensile. Occhi, che lo fissavano. Le creature non nuotavano, ma fissate a una sacca di pelle di squalo sciamavano su aggeggi ovali dotati di alette laterali e ventrali e di eliche che frullavano nell’acqua vibrando come mosconi. Aloni di luce si accendevano e spegnevano attorno agli occhi.
Chiarizia si asciugò il sudore, inspirò a fondo l’aria fresca che soffiava nello scafandro senza riuscire a sbattere le palpebre. Un altro gettò di fuoco accese gli abissi e si spense.
Chiarizia strizzò gli occhi. A sinistra, ai piedi della collina, c’era un lago, un lago d’acqua nell’acqua, immoto, color piombo. Una creatura lo sorvolò sul suo idrogibile. Le sponde di roccia sforacchiata brulicavano di granchi bianchi come neve, di cozze e di vermi orlati di tentacoli che pulsavano di luce. Dalle sponde che risalivano verso la collina estrudeva una pietra bianca che pareva ghiaccio o gesso. E dalla pietra sgorgavano nugoli di bollicine. Le bolle salivano dal fino a un cono di pelle trasparente con un intelaiature di metallo che le raccoglieva e le aspirava in un tubo.
Le creature spinsero lo scafandro verso il fianco della collina, dove la roccia era stata scavata e i massi tagliati per farne una costruzione nera, bucherellata come un alveare e popolata da una moltitudine di creature, che la rendevano tanto luminosa da farla sembrare un faro. Dai buchi sporgevano ovunque tubi, proboscidi, banderuole di cuoio e idrogibili. Era la loro casa, vivevano lì.
Chiarizia tastò la rotondità delle mine contro la schiena.
Quello era il posto per farle esplodere. Non potevano vederlo dentro. Poteva farle cadere una per una. Anche se se ne fossero accorti sarebbe stato troppo tardi. Lui sarebbe morto nell’esplosione, ma meglio così che asfissiato nello scafandro o divorato.
Le creature spinsero lo scafandro sempre più vicino all’edificio. Chiarizia accarezzò la mina, sfiorò la sicura.
 
Lo accostarono al lato di dritta dell’edificio, dove l’attività ferveva meno frenetica, ma fosse come fosse, parecchie centinaia sarebbero morte con lui nell’esplosione o nei crolli.
Un singolo oblò era imbullonato alla pietra. La luce che emetteva era diversa, più normale, più elettrica.
Chiarizia afferrò la mina. Una volta vicino non aveva che da togliere la sicura, appoggiare la mina nel vano e buttarla fuori. E contare quindici minuti.
Spense le luci esterne. Il sudore gli pizzicava sulla fronte. Forse avrebbe avuto tempo di gettarne altre. Digrignò i denti al pensiero.
Incastonato nella roccia bitorzoluta e punteggiata di anfratti, l’oblò era illuminato da dentro. Vermetti e mitili ne incrostavano i bulloni.
Chiarizia prese un respiro profondo. Infilò l’indice nell’anello della sicura.
Una figura si mosse dietro l’oblò.
Ora o mai più. Con un colpo secco Chiarizia strappò la sicura.
Alzò gli occhi.
«Lara…»
Attraverso i due vetri dello scafandro e dell’oblò riconobbe il mento a punta, i riccioli ribelli, gli occhi neri come la notte che regnava perenne negli abissi. Il capitano Lara DeLuca.
La sua amata allungò le dita come per accarezzarlo sulle labbra e gli sorrise.
«Lara.»
Gli tremò la mano.
 
Fine
 

I commenti sono bene accetti, giuro che non strangolerò nessuno. (Leathy, la motosega!)

3 pensieri su “Fuochi fatui IV – Hydropunk

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  2. coscienza

    Bellissimo il finale, è un bel crescendo nell’ultimo capitolo. Nessun difetto da segnalare, imho quest’ultimo capitolo è perfetto così. Il limite di parole di Minuetto si fa un po’ pesare nell’insieme, si ha ogni tanto una sensazione di tanta roba “compressa”.
    Hai scritto altro, oltre a questo racconto che si possa leggere?
    Sono molto curioso U__u

  3. fraflabellina Autore articolo

    pensa che alla prima scrittura ero di 1000 parole troppo lunga! pensavo che avrei dovuto eliminare una scena, tipo quella dell’affogamento, invece ci sono stata. D’altronde in una raccolta di racconti non si possono dare lunghezze troppo lunghe. La sensazione di compressione penso sia dovuta anche a una questione stilistica, cerco sempre di fare più cose contemporaneamente e non avendo spazio per dare “aria” ho finito per concentrare ancora di più. Alla prossima revisione ci farò più caso.
    No, di pronto non ho niente. Sto lavorando a un paio di racconti e revisionando un romanzo, potrei postare il primo capitolo, ma mi ci vorrà ancora un bel po’ prima di arrivare in fondo.
    Sono contenta che ti piaccia il finale, brusco com’è mi preoccupa che dia la reazione giusta.

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