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La 41esima regola per scrivere bene di Umberto Eco

Girando per l’Internet continuo a trovare le “40 regole di Eco” tratte da La bustina di Minerva, e visto che assomigliano alle regole per scrivere di questo celeberrimo manuale sullo stile, le riporto anch’io.

Queste regole evidentemente non sono nate per la sola narrativa, ma per la scrittura in genere, per cui alcune non si applicano alle lettera. Io mi rifaccio sempre alla scrittura per la narrativa.

1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.

Non so perchè questa regola stia per prima. Perchè Allitterazione comincia con la A? Evitare le allitterazioni è una buona regola, e per un motivo preciso: spostano l’attenzione del lettore dalla storia, dove dovrebbe stare, alla scrittura stessa, che in sè è solo un mezzo. Vedi il principio di scrittura trasparente.

2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.

Dove vai se la grammatica non ce l’hai?

In narrativa la grammatica è: ciò che se non c’è non vale neppure la pena continuare a parlare. Con un’eccezione però. Errori grammaticali hanno un perchè quando messi in bocca a personaggi di basso livello culturale. Nessuno si aspetta che la casalinga di Voghera con la terza elementare usi i congiuntivi. Farglieli usare correttamente sarebbe un errore.

3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

Sante parole! Le frasi fatte fanno cadere le unghie dei piedi. A meno che, di nuovo, non sia un personaggio a parlare così e vengano usate a fini ironici… e comunque, ricordatevi che non ci sono più le mezze stagioni.

4. Esprimiti siccome ti nutri.

Ottimo consiglio.

5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.

Disturbano anche me. In particolare gli americani hanno come sport nazionale l’invenzione di sigle, pare li disturbi enormemente chiamare le cose con il nome per intero.  Va bene CIA, ma certe volte pare parlino in codice.

6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.

Vero. Nella scrittura per la narrazione le parentesi raramente si usano. Anche perchè, quando ben serve fare un inciso, basta piazzare due virgole al posto giusto.

7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.

Ah, i puntini… stramaledetti puntini… come tutti segni di interpunzione usati… alla cavolo!!! Che è mica questo il modo di scrivere????? I puntini di sospensione, così come i punti esclamativi, vanno usati con attenzione. Quando sono troppi è segno che lo scrittore stesso… insomma… non è che sappia esattamente…

8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.

Stesso discorso del punto 7, non sovraccaricare il testo di segni inutili. A parte quando le virgolette indicano un dialogo, si capisce.

9. Non generalizzare mai.

Questa regola è così generale che non capisco bene cosa voglia dire. Pare essere anche molto esplicativa. Da un punto di vista raccontato non si capisce, da un punto di vista mostrato invece sì. Capisco ma non capisco, mmm…

10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.

Eco, ti bacerei sulla fronte.

11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu”.

Spero a nessuno venga in mente di imbottire un romanzo di citazioni.

12. I paragoni sono come le frasi fatte.

Non direi che i paragoni siano minestra riscaldata, dipende dal paragone. E’ vero però che rischiano di essere banali e raccontati. Le similitudini, che sono una forma di paragone, se usate bene possono invece risolvere la situazione, non le eliminerei certo dall’equipaggiamento dello scrittore.

13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).

Un altro bacio in fronte. Mai annacquare il vino.

14. Solo gli stronzi usano parole volgari.

Non è vero. Anche chi è incazzato, chi si è appena preso una martellata sulle dita, chi non è stato educato a badare alla lingua, chi non ha voglia o interesse a mostrarsi perbene, chi guarda una partita di calcio con gli amici e vince la squadra sbagliata, chi si trova in un contesto dove la volgarità non stona.

Sono contraria alla categoricizzare le parole come “buone” e “cattive”. Le parole volgari fanno parte del vocabolario come tutte le altre, e come tutte le altre vanno usate nel modo e nel momento giusto. L’unico metro di giudizio che si può dare sulle parole è la loro efficacia, e in questo senso stronzo è molto più bella di categoricizzare.

Detto questo, le volgarità scritte hanno un peso maggiore delle volgarità parlate. E’ bene andarci cauti con le parolacce.

15. Sii sempre più o meno specifico.

Bacio con schiocco questa volta.

16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.

Eheh, grazie Eco per la sottigliezza. Questa regola cade sotto “non negare per affermare”, “non usare più parole del necessario”. Discorso a parte se c’è un’intenzione ironica.

17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.

Le frasi con una parola sola hanno una ritmica particolare che di rado ha un senso usare, ma arrivano momenti in una narrazione dove serve proprio quel ritmo. Non c’è nessun motivo pratico per eliminarle del tutto.

18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.

La regola è “una metafora deve aiutare il lettore, non incasinargli il cervello”. Una metafora eccessiva più probabilmente incasina il cervello, come lo fanno metafore fuori tono o inutili.

19. Metti, le virgole, al posto giusto.

Dove vuoi andare se la punteggiatura non ce l’hai?

20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.

Vedi punto 19.

21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.

Non capisco se vuole dire di non usare il dialetto o se vuole dire di non usare il dialetto anche se l’italiano non lo sai. Comunque sia, è chiaro che il dialetto va usato solo se si ha un buon motivo e solo se lo si sa gestire.

22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.

Vedi punto 18.

23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?

No, no, e poi ancora no. Sono paro paro alle frasi fatte. (Ooops, ho fatto un paragone!)

24. Sii coinciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinchè il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

Sorvolo sul “potere dei media” e rimando al punto 13.

25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.

E qui si ringrazia la Ciurma della Crusca.

26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.

Vedi punto 2.

27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!

Vedi punto 7 e punto 13.

28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.

Che odio le esse plurali inglesi in italiano! mamma mia… o parli in italiano o parli in inglese, vanno bene entrambe per me, ma scegli! Hai usato un termine straniero, ma che bravo, e ci hai pure fatto il plurale, ma complimenti al gegnio!

29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.

Fai che scriverle giuste tutte le parole, va’.

30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.

Altro bacio in fronte. E questa stravale anche per la narrativa. I nomi dei personaggi sono trasparenti, usateli. State scrivendo un romanzo, non le parole crociate.

31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).

Eheh. Beh, questa sta sotto il “non prendere per il culo il lettore”.

32. Cura puntigliosamente l’ortograffia.

Vedi punto 30. Gli errori di battitura scappano sempre, ma limitarli in numero è un obiettivo perseguibile.

33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.

Stucchevole, stucchevole. Tanto più in una narrazione, dove una preterizione, a meno che non sia pronunciata da un personaggio o da un narratore in prima, presuppone che l’autore sia entrato a viva forza nella storia, il che è una delle peggiori bestemmie in narrativa.

34. Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.

Bisogna andare a capo al momento giusto. E il momento giusto cambia a seconda del ritmo della narrazione, sovente o non sovente che sia.

35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.

Vedi punto 33.

36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.

Questa non è scrittura, questa è logica. Questa regola vale sempre. Che si scriva, si parli o si ribollisca fra sè come una pentola di ceci. (Tre congiuntivi sulle tre coniugazioni, mi sento realizzata).

37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.

Ovvia conseguenza pratica del punto 36.

38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonchè deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.

Aahahahh, eh ehm. Alla faccia della scrittura trasparente.

39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.

Certo. Anche se vista la logorroicità media mi sa che non si corre il rischio.

40. Una frase compiuta deve avere.

Vedi punto 2.

Fine delle regole di Eco.

E… e la regola 41?

La regola 41 Eco l’ha ripetuta 40 volte all’interno di ciascuna delle 40 regole. Non la indovinate?

Mostrare è meglio di raccontare.

E se lo dice Eco è vero per forza.

Fuochi fatui – Hydropunk

Visto che il concorso Hydropunk ha chiuso la fase di raccolta dei racconti, mi prendo la libertà di pubblicare la prima parte del mio, poco meno di un quarto della lunghezza. E’ la quarta revisione, che ho deciso arbitrariamente essere l’ultima, ma rileggendo ora vedo che c’è qualcosina da mettere a posto. C’è sempre qualcosina da mettere a posto. Il titolo è Fuochi fatui.

Il capitano Chiarizia liberò la cima dalla bitta e la lanciò al marinaio sul ponte della dragamine. Sebastiani, al timone, allontanò la Sirena dalla dragamine e dalla traiettoria delle eliche.
Il marinaio sventolò il berretto, le eliche spazzarono le onde. I palloni aerostatici tiravano i cavi d’acciaio, la dragamine virò in equilibrio cinque metri sopra il pelo dell’acqua e una nuvola di spilli sbuffò dal mare. La nave virò verso Capo Carbonara seguita da un arcobaleno d’acqua vaporizzata.
Chiarizia si asciugò la faccia con la manica della camicia.
Centellinò il poco tabacco rimastogli e si accese la pipa. Il nuovo arrivato, che la dragamine aveva pescato dritto dritto dalla terraferma, salì a prua con lui.
Martinozzi sorrise. Scarpe di tela, calzini bianchi, mani bianche, vecchio orologio d’oro e gel nei capelli. Chiarizia si gustò l’aroma sulla lingua.
«Queste sono le boe?» Martinozzi indicò la tela ripiegata del pallone aerostatico che dalla cala di prua usciva sul ponte di comando. «Ci troveremo a usarle secondo lei?»
«Se avvistassimo fuochi fatui.»
Martinozzi guardò il cielo che imbruniva. Masticava qualcosa.
«Tabacco?» chiese Chiarizia.
«Cosa? No, gomma. Per il mal di mare.»
«Oh.»
«Non avevo mai visto un’intera nave portata dalle boe. Anche la Sirena può sorvolare il mare?»
«Quella là è una nave sperimentale e la Sirena è solo un vecchio peschereccio,» Chiarizia accarezzò la balaustra, il fianco dipinto di bianco e di blu. «Se avremo sentore di quelle bestiacce, un fuoco fatuo, una bolla di metano, se venissero a grattarci la chiglia, gonfieremo i palloni con l’elio e ci solleveremo, ma saremo immobili. La vede quella cima? Se s’impiglia, il pallone non sale, la nave s’inclina da una parte e qualcuno finisce in acqua. E lo vede il gancio? Se i miei marinai non arrivano in tempo a sganciarlo i palloni non si alzano, non si gonfiano e noi rimaniamo coi piedi al bagnato.»
Martinozzi aprì il collo della camicia. «Non darò fastidio, capitano.»
«Si è già sistemato sottocoperta? Sì? Allora si cambi le scarpe. Se qualcosa le va su un piede e ne fa una sogliola mi aspetto che lei continui a camminare.»
«Ma la mia attrezzatura, il microscopio, i ferri?»
«L’irlandese e la Rosi hanno sistemato tutte le sue faccende nella stiva.»
Chiarizia fece segno di seguirlo.
 
La vecchia cella frigorifera era stata smantellata. Le pareti d’acciaio nudo vibravano a contatto con la sala macchine. La Rosi, in piedi nell’angolo opposto al portello, sollevò il disco Secchi facendolo oscillare.
«L’hai sistemato quell’aggeggio?»
«Sì, capitano. Si era solo slegato, nessun problema.»
«Niente?»
Chino sul visore, Sebastiani ruotò il periscopio sott’acqua. «Blu, blu, blu e blu.»
Sul tavolo inchiodato al pavimento affianco al periscopio, la Rosi aveva sistemato l’attrezzatura di Martinozzi.
Chiarizia aprì una custodia di pelle nera e osservò i bisturi e le pinze aspirando le ultime boccate dalla pipa. La roba del biologo sapeva di disinfettante e di sapone per i piatti. Aveva portato a bordo fogli plastificati, boccettine e alambicchi, cannucce graduate, una collezione di contenitori in plastica con etichette tra le più ingarbugliate che Chiarizia concepisse, il microscopio con quattro ingrandimenti, vetrini, dei libri, un taccuino.
Con la coda dell’occhio Chiarizia vide che Sebastiani invece di controllare il periscopio se ne stava a cavalcioni dello sgabello a fissare la Rosi con una faccia da tonno. La cima del disco Secchi si era tutta impigliata e annodata.
«Ha mai sezionato una di quelle bestiacce?»
«Le ho studiate,» rispose Martinozzi. «Non sono facili da catturare. E poi non sono bestiacce.»
«Ah no?»
«Sono intelligenti. I resti dei fumaioli ne sono una prova inconfutabile.»
«Intelligenti, eh?»
Martinozzi sistemò i piedini sotto il microscopio. «Non crede che siano intelligenti?»
Chiarizia tirò dalla pipa. «Sebastiani!»
«Sì? Sì, capitano.»
«Il periscopio!»
«Mi scusi, capitano.»
Chiarizia sedette sul tavolo e sui taccuini di Martinozzi. «In vista delle coste sarde, a cinque miglia dalla scarpata, l’equipaggio di un ex peschereccio simile alla Sirena sentì un rumore di metallo venire dalla carena. Poteva essere un galleggiante alla deriva, un tronco, un pezzo di qualcosa. Il fondale sarà stato di seicento metri. Fuori bordo non c’era niente di niente. Si misero al periscopio e videro delle ombre, come delle cime arrotolate al timone. Poi videro una coda. Una pinna verde, e sentirono il rumore di un trapano che forava lo scafo. In cinque minuti la sentina era allagata, il fondo aperto come una scatola di sardine. In dieci minuti la nave affondò. Io ero vicino, raccolsi un marinaio. Non trovai gli altri quattro, né il capitano DeLuca. Erano andati giù. Il marinaio disse che le pinne lo avevano afferrato per le gambe,» Chiarizia picchiettò il fondo della pipa buttando per terra cenere e fondiglio ancora tiepidi. «Conoscevo bene il capitano DeLuca. Mi regalò questa pipa, l’ultimo regalo che mi fece, un giorno prima di scomparire là sotto. Se penso che quelle bestie sono intelligenti? Oh, sì. Sono intelligenti. Chissà cosa nascondono, che piani hanno.»
«Bisogna trattarle con rispetto.»
«Sebastiani! Il periscopio! Rispetto? Se ne pesco una gli stacco pinne e squame una a una.»
«Non hanno né pinne, né squame,» disse Martinozzi. «Sono bonellie.»
Chiarizia aveva bisogno di un’altra fumata. «Vada a riposarsi, sarà stanco,» disse. «Qui dobbiamo fare i turni al periscopio, lei farà il turno del mattino. E si cambi le scarpe.»
 […]
 
Vai a Fuochi fatui II
 

I commenti sono ben accetti.

Lista delle scene – Concorso Hydropunk

Ordunque, avevo parlato del concorso Hydropunk qui e avevo detto che forse avrei partecipato. Beh, l’altra settimana, alleluja, ho finito di buttare giù la prima stesura, e ieri, altro alleluja, ho finito la prima revisione.

Lo stile era un crimine contro l’umanità. C’erano cose che mi erano venute in mente a metà e dovevo tornare indietro ad aggiustarle. E… era di circa 1000 parole troppo lungo.

Sforare di mille parole su un massimo consentito di 5000 non è male. Per fortuna nella prima stesura c’è sempre una marea di fuffa e di ripetizioni.

Ho però fatto una cosa che non avevo mai provato, ho listato le scene del racconto per visualizzarle meglio. Essendo “solo” 11 non è un gran problema, ma visto che voglio applicare lo stesso sistema anche a un lavoro che di scene ne ha abbondantemente oltre il centinaio, ho fatto qui la prova.

Ecco la lista delle scene del racconto.

Numero Titolo Lunghezza Tensione Tipo
1 Dragamine 560 4 Descrizione-Dialogo
2 La Margherita 509 6 Dialogo
3 Cabina del capitano 309 5 Descrizione-F. interiore
4 I fuochi fatui 1089 8 Azione-Descrizione
5 La Sirena 570 7 Dialogo-Azione
6 La bonellia 534 6 Dialogo-F.interiore
7 L’attacco 844 8 Azione
8 Annegamento 313 9 Azione
9 Lo scafandro 375 7 Descrizione-Azione
10 Il mondo delle bonellie 601 8 Descrizione
11 DeLuca 252 10 Descrizione-Azione

Numero e Titolo delle scene non hanno importanza tecnica, servono solo per contarle e identificarle.

Il numero di parole permette di vedere a occhio i rapporti di lunghezza. Essendo questi numeri relativi alla prima stesura è naturale che siano un po’ traballini. La prima stesura è disordinata e lo è in maniera disomogenea. Revisionando, alcune scene si sono sensibilmente accorciate, altre sono scese solo di una manciata di parole. In ogni caso il rapporto tende a rimanere simile. “I fuochi fatui”, la scena più lunga, è calata da 1089 parole a 843, ma resta la scena più lunga. La seconda scena “La Margherita” è passata da 509 a 497, ma in realtà è calata anche lei di almeno un centinaio di parole, non si nota solo perchè nella revisione ho aggiunto qualcosa che prima non c’era. Mi ha fatto impressione l’ultima scena, che nonostante sia la scena con maggiore tensione (è quel che spero io perlomeno) non solo era in partenza la più breve, ma è calata ancora da 252 a 197. Per dire, la scena più importante era già la più breve e ancora non aveva bisogno di tutte quelle parole. Anzi, con meno parole funziona meglio. Ciò che conta è il contenuto e se un numero inferiore di parole trasmettono lo stesso contenuto significa che la scrittura è diventata più densa, più forte. Troppe parole sono come l’acqua nel vino.

Altra cosa interessante da fare è dare un “punteggio” da 0 a 10 alle scene in base alla loro tensione. La tensione all’interno delle scene non è uniforme. Nella stragrande maggioranza dei casi tende ad avere dei picchi intermedi e a raggiungere l’apice alla fine. Il punteggio è assegnato considerando la tensione media, ma resta una valutazione soggettiva. Diagrammino.

In ascisse le scene, in ordinate la tensione. L’andamento della tensione dall’inizio alla fine della narrazione è simile all’andamento interno di una qualunque scena. Non è uniforme, parte a un livello più o meno alto, ha dei picchi intermedi e raggiunge il suo massimo alla fine.

La tensione delle scene è una conseguenza del ritmo della narrazione, cioè della velocità con cui i fatti sono narrati. Non è detto che a un ritmo più lento corrisponda una tensione minore, si pensi alla “quiete prima della tempesta”, la situazione in cui non succede niente, ma sta per succedere qualcosa. E’ invece sempre vero che quello che si percepisce leggendo non è tanto la velocità quanto l’accelerazione. Se pensate di creare più tensione andando veloci sbagliate, la tensione è frutto soprattutto delle accelerazioni. Questo significa che non si può andare sempre alla stessa velocità, rapida o lenta che sia, e non si può sempre accelerare, o ad un certo punto si arriva a un ritmo insostenibile per chi scrive e nevrotico per chi legge. Così come bisogna accelerare, così bisogna frenare. Da qui i picchi intermedi.

Immaginate che il vostro gatto faccia cadere un piatto nel bel mezzo della notte e che quello si sfracelli a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state sognando pacifici, accoccolati nel vostro nido di coperte. Farete un salto in aria, vi verrà la tachicardia, stramaledetto gatto! E se invece qualcuno facesse cadere un piatto nel bel mezzo di una discoteca e quello si sfracellasse a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state urlando nell’orecchio del vostro migliore amico che quella sera volete sbronzarvi fin nelle scarpe perchè la ragazza vi ha mollato, a malapena gli concedereste uno sguardo al piatto. Ma è lo stesso piatto che cade allo stesso modo. Più del rumore assoluto conta il rumore relativo. Certo che se fate esplodere una bomba H…

L’ultima colonna della tabella descrive la scena in termini tecnici. Non dice “qui muore il protagonista”, dice che quella scena è composta in prevalenza da dialogo piuttosto che da azione e quindi dà un’idea della tipologia di scena. Le scene d’azione sono più spesso cariche di tensione, ma non è detto che una scena prevalentemente descrittiva non sia altrettanto tesa o che non lo sia una scena piena di dialogo.

Conto finale della parole alla fine della revisione: 5000 tonde tonde. Lascerò passare qualche giorno e farò un’altra revisione, confido che le parole resteranno suppergiù quelle.

Qui si può leggere il racconto.

Scuoiare l’immagine – esercizi di immaginazione

Dopo aver letto l’articolo su Tapirullanza sono andata a spulciare il blog sugli esercizi di dilatazione di McClark.

Personalmente non ho mai preso ispirazione da dipinti e disegni, anche se mi piace dipingere e adoro l’arte pittorica, specialmente se surreale o comunque a forte gradiente immaginativo (per dire, mi piace Dalì, molto meno Giotto). Per ora ciò da cui ho tratto maggiore ispirazione sono i sogni, ma d’altronde che importa da dove si pescano le idee? Le idee sono a buon mercato. Più difficile è tenere l’immaginazione elastica e allenata e questo è il proposito degli esercizi di dilatazione. Prendere un’immagine e aprirla dal di dentro per scovare cosa nasconde, lo chiamerei “scuoiare l’immagine”.

McClark è un illustratore, molto bravo tra l’altro, e propone ogni settimana degli esercizi di dilatazione sui propri lavori aggiungendo a ciascuno un breve paragrafo scritto per dare spunto alla narrazione. La cosa mi sembra così intelligente e le illustrazioni sono così fighe che proverò anch’io a fare degli esercizi di dilatazione. Dei racconti, non molto lunghi, su un 5000 parole come massimo, ciascuno a partire da un’immagine.

Visto che di immagini suggesstive è pieno il mondo, mi limiterò a usare le illustrazioni di McClark. E non userò le necessariamente le prossime che pubblicherà in ordine, ma sceglierò quelle che mi piacciono di più. Se un’immagine non fa scaturire nessuna sensazione in chi la guarda, il proposito degli esercizi di dilatazione perde di senso.

Il punto fondamentale sarà quello di allenare e liberare l’immaginazione, per cui per me l’esercizio sarà di rendere i racconti il più immaginifici possibile nel limite della coerenza interna. Non terrò conto delle scritte di McClark che accompagnano le immagini, userò le immagini e le immagini soltanto. Ho già adocchiato alcune illustrazioni su cui lavorare. Quella di lunedì scorso non è male.

L’unico dubbio è che è un po’ troppo precisa. Confrontata ad altre è un’immagine “facile” da interpretare. C’è un gigante che pare essersi appena risvegliato e una città in rovina. Visto che perde sangue potrebbe essere che l’hanno attaccato e che la distruzione della città non sia che un effetto collaterale. Se l’interpretazione è immediata vuol dire che l’uso dell’immaginazione è limitato.

Questa mi piace particolarmente, bellissima composizione, anche se è “facile”. Si poteva persino usare per il concorso di Hydropunk!

Guardate invece questa.

Questa non racconta alcuna storia, è suggestiva, ma non suggerisce molto, è già complicato capire che cosa è! Se si vuole costruire un racconto su questa bisogna per forza mettere in moto l’immaginazione o non se ne cava un ragno dal buco.

Questa mi piace da matti.

Ha un che di poetico, è malinconica. Lasciate stare lo scheletro, il teschio, bla, bla, questi sono oggetti. Io dico l’impressione. E’… triste e dolce insieme. Ecco, è questo che serve per scuoiare l’immagine, un’impressione. Qui c’è anche il contrasto tra la natura dell’impressione e quella del soggetto, il che non guasta. Quest’immagine penso di usarla.

Questa è magnifica, una delle mie preferite, e praticamente perfetta per l’esercizio.

Qui non c’è niente da capire, a parte che fa freddo! C’è solo da inventarci sopra.

Penso che la prima sarà invece questa qui. Stupenda, dovrei mettere una gigantografia in camera.

E’ l’esercizio di dilatazione numero 8.

Revision and self-editing – manuale

Di James Scott Bell, Revision and Self-Editing è un manuale sulla revisione della scrittura per assicurarsi che tutto funzioni come dovrebbe prima di mandare il capolavoro alle stampe.

Bell fa una specie di ripassone di molti argomenti, dai dialoghi, al tema, alla caratterizzazioni dei personaggi, per i quali è bene leggersi dei manuali più approfonditi (Bell stesso ha scritto altri tre manuali, sempre per la Writer’s Digest, Plot & Structure, The Art of War for Writers e Conflict & Suspense). Revision and Self-Editing prende per sottintese le basi e dà imbeccate per capire se tutto funziona. Chiaramente non è un granchè come per cominciare, ma molti consigli sono interessanti e vale la pena di essere letto.

Non capita di rado di percepire che qualcosa in una scena o in un personaggio non sia al suo posto, non è altrettanto semplice passare dalla sensazione che qualcosa non va alla soluzione del problema. Il manuale di Bell è utile a inquadrare i problemi e lo fa soprattutto ponendo delle domande. Ad esempio, il tale personaggio secondario che non funziona bene è un aiuto al personaggio principale o un ostacolo? Se non è nè l’uno nè l’altro il suo problema potrebbe essere proprio questo, che non ha un ruolo e non partecipa a creare tensione. Questo è il primo manuale che leggo che non spiega granchè ma perlopiù propone delle soluzioni. “La tale battuta di dialogo è piatta? Prova a torcere il linguaggio”. Posto che si accettino i suoi consigli, e grossomodo sono tutti buoni consigli, porsi una serie di domande, sempre in ogni occasione, potrebbe diventare un utile automatismo.

Domande

Tra le altre cose, Bell consiglia di fare quello che spesso si sente consigliare, cioè di intervistare i propri personaggi. Questo serve sia a costruirli, a conoscrerli, che a creare per loro una vita precedente ai fatti della storia. Ma l’intervista, o la seduta dall’analista, si può fare anche per controllare che il personaggio funzioni. Se non sapete come il vostro personaggio risponderebbe a una domanda, significa che qualcosa nel personaggio non va, che non è ancora pronto. Sono domande semplici. Che cosa t’importa di più al mondo? Quali persone ammiri e perchè? Qual’è la cosa più imbarazzante che ti sia mai capitata? Se ne possono creare quante se ne vuole.

Altre domande servono a capire se un personaggio funziona dentro la storia. Ad esempio, riguardo l’antagonista: L’antagonista è pienamente sviluppato come lo è il protagonista? Il suo comportamento è giustificato, nella sua mente perlomeno? Stai trattando il tuo antagonista lealmente? Ha tante possibilità quante ne ha il protagonista di riuscire vittorioso?

Oppure, sulle motivazioni che muovono i personaggi e regolano l’andamento della trama e delle singole scene: che cosa vuole il personaggio e perchè? Che cosa gli impedisce di raggiungere il suo obbiettivo? Se non si hanno bene in mente le risposte i personaggi e la trama fanno cilecca.

Una scena è lì che beccheggia? Puoi alzare la posta in gioco? Far sì che il personaggio sia più coinvolto? Rendere gli ostacoli più difficili da superare? Inserire un personaggio a sorpresa? Far sì che l’ambientazione  o il tempo atmosferico peggiorino la situazione? E via così. Sono tutte possibili soluzioni.

Trucchi

Altri consigli di Bell da tenere in mente sono “trucchi”. In praticamente tutti i manuali di scrittura su praticamente tutti gli argomenti c’è scritto e ripetuto che ogni parola del testo deve avere una funzione nella storia, se non ce l’ha è inutile, è un corpo morto, deve essere eliminata. Ma Bell ci aggiunge un pezzo, un pezzo che in realtà si intuisce da soli dopo un po’, e cioè che per scrivere bene non basta che ogni parola abbia una funzione, ne deve avere almeno due. Un dialogo che non serve a niente è uno strazio, ma un dialogo che serve solo a passare informazioni è, alla meglio, fiacco. Se invece mentre passa delle informazioni il dialogo esprime anche lo stato d’animo di un personaggio, allora sì che funziona. Una descrizione non dovrebbe dare solo informazioni sull’ambientazione, ma anche creare atmosfera, eccetera eccetera.

Oppure sistemi per aggiungere pepe. Il tuo personaggio deve fare una scelta? Viene istintivo dargli una scelta giusta e una sbagliata, una positiva e una negativa e poi lasciarli prendere la sua decisione. Ma se invece le soluzioni fossero entrambe negative? Non importa cosa il personaggio scelga, si troverà comunque in una situazione senza via d’uscita.

Interessante, anche se penso non originale, è l’idea di considerare l’ambientazione come un altro personaggio. Aiuta a tenere a mente che le difficoltà si possono creare semplicemente, e comodamente, manipolando l’ambiente.

Visto che sono un po’ tignosa e mi chiedo sempre quale sia l’origine pratica di ciò che gli autori scrivono sui loro manuali, mi sono procurata un romanzo di Bell per vedere cosa il nostro brav’uomo combina quando è lui a scrivere. Bell scrive thriller ma ha scritto anche un paio di romanzi rosa d’ambientazione storica. Eliminando a priori i rosa, che oltretutto hanno una copertina che mi ricorda troppo da vicino Harmony, e visto che vanno tanto tanto di moda zombie e vampiri, e tutti leggono di zombie e vampiri tranne me, e tutti scrivono di zombie e di vampiri tranne me, ho deciso per Pay me in flesh (pubblicato sotto lo pseudonimo di K. Bennett). Protagonista una zombie avvocata e che nel prossimo caso dovrà difendere una vampira accusata di un omicidio che un realtà è stato lei a compiere. Questo il riassunto minimo delle prime venticinque pagine che ho letto ieri sera.

La prima impressione è che i consigli di Bell funzionano. Il problema è che restano in superficie, immediatamente visibili. Capisci subito quel’è l’obbiettivo del protagonista, che strada sta seguendo l’autore, lo scheletro del romanzo è molto vicino agli occhi del lettore. Immagino che per il lettore medio non faccia nessunissima differenza, anzi. Per me i tira e molla con il lettore alla fine diventano prevedibili, sono a pagina venticinque ma riesco a individuare con mezzo paragrafo di errore dove ci sarà il prossimo gancio al lettore. Ho anche l’impressione che ossessionarsi così tanto sul mettere una svolta all’inizio di ogni capitolo e una frase d’effetto alla fine, e lo stesso schema ripetuto per ogni scena, diventi limitante. Ma è anche vero che Bell spinge molto su questa cosa, fatta in maniera meno sistematica o più leggera è un trucchetto che dà i suoi frutti in termine di lettore che continua a girare le pagine. Fin’ora Pay me in flesh mi sta garbando abbastanza, è scritto con mestiere, se tiene così per le altre duecento pagine fa una lettura piacevole. Niente di speciale, ma è un libro onesto, non pretende di essere più di que che è; ed è molto più di quello che offrono tanti megaseller.