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La 41esima regola per scrivere bene di Umberto Eco

Girando per l’Internet continuo a trovare le “40 regole di Eco” tratte da La bustina di Minerva, e visto che assomigliano alle regole per scrivere di questo celeberrimo manuale sullo stile, le riporto anch’io.

Queste regole evidentemente non sono nate per la sola narrativa, ma per la scrittura in genere, per cui alcune non si applicano alle lettera. Io mi rifaccio sempre alla scrittura per la narrativa.

1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.

Non so perchè questa regola stia per prima. Perchè Allitterazione comincia con la A? Evitare le allitterazioni è una buona regola, e per un motivo preciso: spostano l’attenzione del lettore dalla storia, dove dovrebbe stare, alla scrittura stessa, che in sè è solo un mezzo. Vedi il principio di scrittura trasparente.

2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.

Dove vai se la grammatica non ce l’hai?

In narrativa la grammatica è: ciò che se non c’è non vale neppure la pena continuare a parlare. Con un’eccezione però. Errori grammaticali hanno un perchè quando messi in bocca a personaggi di basso livello culturale. Nessuno si aspetta che la casalinga di Voghera con la terza elementare usi i congiuntivi. Farglieli usare correttamente sarebbe un errore.

3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

Sante parole! Le frasi fatte fanno cadere le unghie dei piedi. A meno che, di nuovo, non sia un personaggio a parlare così e vengano usate a fini ironici… e comunque, ricordatevi che non ci sono più le mezze stagioni.

4. Esprimiti siccome ti nutri.

Ottimo consiglio.

5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.

Disturbano anche me. In particolare gli americani hanno come sport nazionale l’invenzione di sigle, pare li disturbi enormemente chiamare le cose con il nome per intero.  Va bene CIA, ma certe volte pare parlino in codice.

6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.

Vero. Nella scrittura per la narrazione le parentesi raramente si usano. Anche perchè, quando ben serve fare un inciso, basta piazzare due virgole al posto giusto.

7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.

Ah, i puntini… stramaledetti puntini… come tutti segni di interpunzione usati… alla cavolo!!! Che è mica questo il modo di scrivere????? I puntini di sospensione, così come i punti esclamativi, vanno usati con attenzione. Quando sono troppi è segno che lo scrittore stesso… insomma… non è che sappia esattamente…

8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.

Stesso discorso del punto 7, non sovraccaricare il testo di segni inutili. A parte quando le virgolette indicano un dialogo, si capisce.

9. Non generalizzare mai.

Questa regola è così generale che non capisco bene cosa voglia dire. Pare essere anche molto esplicativa. Da un punto di vista raccontato non si capisce, da un punto di vista mostrato invece sì. Capisco ma non capisco, mmm…

10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.

Eco, ti bacerei sulla fronte.

11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu”.

Spero a nessuno venga in mente di imbottire un romanzo di citazioni.

12. I paragoni sono come le frasi fatte.

Non direi che i paragoni siano minestra riscaldata, dipende dal paragone. E’ vero però che rischiano di essere banali e raccontati. Le similitudini, che sono una forma di paragone, se usate bene possono invece risolvere la situazione, non le eliminerei certo dall’equipaggiamento dello scrittore.

13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).

Un altro bacio in fronte. Mai annacquare il vino.

14. Solo gli stronzi usano parole volgari.

Non è vero. Anche chi è incazzato, chi si è appena preso una martellata sulle dita, chi non è stato educato a badare alla lingua, chi non ha voglia o interesse a mostrarsi perbene, chi guarda una partita di calcio con gli amici e vince la squadra sbagliata, chi si trova in un contesto dove la volgarità non stona.

Sono contraria alla categoricizzare le parole come “buone” e “cattive”. Le parole volgari fanno parte del vocabolario come tutte le altre, e come tutte le altre vanno usate nel modo e nel momento giusto. L’unico metro di giudizio che si può dare sulle parole è la loro efficacia, e in questo senso stronzo è molto più bella di categoricizzare.

Detto questo, le volgarità scritte hanno un peso maggiore delle volgarità parlate. E’ bene andarci cauti con le parolacce.

15. Sii sempre più o meno specifico.

Bacio con schiocco questa volta.

16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.

Eheh, grazie Eco per la sottigliezza. Questa regola cade sotto “non negare per affermare”, “non usare più parole del necessario”. Discorso a parte se c’è un’intenzione ironica.

17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.

Le frasi con una parola sola hanno una ritmica particolare che di rado ha un senso usare, ma arrivano momenti in una narrazione dove serve proprio quel ritmo. Non c’è nessun motivo pratico per eliminarle del tutto.

18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.

La regola è “una metafora deve aiutare il lettore, non incasinargli il cervello”. Una metafora eccessiva più probabilmente incasina il cervello, come lo fanno metafore fuori tono o inutili.

19. Metti, le virgole, al posto giusto.

Dove vuoi andare se la punteggiatura non ce l’hai?

20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.

Vedi punto 19.

21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.

Non capisco se vuole dire di non usare il dialetto o se vuole dire di non usare il dialetto anche se l’italiano non lo sai. Comunque sia, è chiaro che il dialetto va usato solo se si ha un buon motivo e solo se lo si sa gestire.

22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.

Vedi punto 18.

23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?

No, no, e poi ancora no. Sono paro paro alle frasi fatte. (Ooops, ho fatto un paragone!)

24. Sii coinciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinchè il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

Sorvolo sul “potere dei media” e rimando al punto 13.

25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.

E qui si ringrazia la Ciurma della Crusca.

26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.

Vedi punto 2.

27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!

Vedi punto 7 e punto 13.

28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.

Che odio le esse plurali inglesi in italiano! mamma mia… o parli in italiano o parli in inglese, vanno bene entrambe per me, ma scegli! Hai usato un termine straniero, ma che bravo, e ci hai pure fatto il plurale, ma complimenti al gegnio!

29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.

Fai che scriverle giuste tutte le parole, va’.

30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.

Altro bacio in fronte. E questa stravale anche per la narrativa. I nomi dei personaggi sono trasparenti, usateli. State scrivendo un romanzo, non le parole crociate.

31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).

Eheh. Beh, questa sta sotto il “non prendere per il culo il lettore”.

32. Cura puntigliosamente l’ortograffia.

Vedi punto 30. Gli errori di battitura scappano sempre, ma limitarli in numero è un obiettivo perseguibile.

33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.

Stucchevole, stucchevole. Tanto più in una narrazione, dove una preterizione, a meno che non sia pronunciata da un personaggio o da un narratore in prima, presuppone che l’autore sia entrato a viva forza nella storia, il che è una delle peggiori bestemmie in narrativa.

34. Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.

Bisogna andare a capo al momento giusto. E il momento giusto cambia a seconda del ritmo della narrazione, sovente o non sovente che sia.

35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.

Vedi punto 33.

36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.

Questa non è scrittura, questa è logica. Questa regola vale sempre. Che si scriva, si parli o si ribollisca fra sè come una pentola di ceci. (Tre congiuntivi sulle tre coniugazioni, mi sento realizzata).

37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.

Ovvia conseguenza pratica del punto 36.

38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonchè deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.

Aahahahh, eh ehm. Alla faccia della scrittura trasparente.

39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.

Certo. Anche se vista la logorroicità media mi sa che non si corre il rischio.

40. Una frase compiuta deve avere.

Vedi punto 2.

Fine delle regole di Eco.

E… e la regola 41?

La regola 41 Eco l’ha ripetuta 40 volte all’interno di ciascuna delle 40 regole. Non la indovinate?

Mostrare è meglio di raccontare.

E se lo dice Eco è vero per forza.

Body trauma – manuale

Spesso bisogna scrivere di cose che non si conosce. E’ inevitabile, se scrivi solo di ciò che conosci finisci per scrivere un romanzo sui gerani del tuo balcone. Quando capita fra le mani un argomento che non si conosce bisogna avere santa pazienza e scartabellare un po’. A volte è essere divertente, capitano argomenti interessanti in cui ci si perde.

Era la mia speranza con questo manuale Body Trauma scritto da David Page per la Writer’s Digest. Ferite, incidenti, pallottole, maciullamenti e primo soccorso promettevano di essere non solo utili, ma anche interessanti.

Body Trauma continene meno informazioni di quel che sperassi, specie per quanto riguarda i traumi, cosa succede quando una persona/personaggio rimane ferito, quali sono le conseguenze a lungo termine e come un ferito può essere curato, anche con pochi mezzi. Di tutto questo il manuale parla, ma ne parla poco e in maniera troppo generica per i miei gusti. In certi casi dice cose che sono di dominio pubblico e si ferma lì (oddio, magari in america non sono cose poi così ovvie, chissà). La cosa su cui insiste parecchio, e vi consiglio la lettura se è questo che vi interessa, è l’organizzazione e il funzionamento del primo soccorso. Chi arriva primo sulla scena dell’incidente, che cosa deve fare, attraverso quali passaggi i medici diagnosticano il paziente appena arrivato in ospedale, come sono organizzate le sale operatorie, quali sono i possibili traumi a quale la loro gravità. C’è da dire che Page ovviamente fa riferimento al sistema di primo soccorso americano e, benchè immagino che certi meccanismi siano molto uniformizzati, potrebbero esserci differenze col sistema italiano. Di certo qui il paziente non deve dare il numero di assicurazione.

Page ha uno stile semplice, diretto, colloquiale, il che va bene, ma ha anche un difetto comune tra gli americani, quello che quando leggi ti dà l’impressione che l’autore ti tratti come un minorato mentale, la ripetitività. Page ripete e ripete le stesse cose, magari aggiungendoci un pezzettino. E’ fastidioso, oltretutto non parla certo di concetti difficili, per la maggior parte si tratta di elenchi, tutta roba che si capisce perfettamente alla prima. La ripetitività potrebbe essere anche la conseguenza della disorganizzazione del manuale. Salta di palo in frasca, poi cambia capitolo e torna indietro ridicendoti quello che c’era nel capitolo prima.

In buona sostanza non è da buttar via ma speravo molto meglio.

Altro manuale della stessa collana di Body trauma che mi sono messa in lista di lettura è Deadly doses, questo dedicato al mondo dei veleni. Tra l’altro devo spulciarlo per un particolare in un progetto che sto scrivendo, devo trovare un veleno con determinate caratteristiche. Speriamo bene.

Revision and self-editing – manuale

Di James Scott Bell, Revision and Self-Editing è un manuale sulla revisione della scrittura per assicurarsi che tutto funzioni come dovrebbe prima di mandare il capolavoro alle stampe.

Bell fa una specie di ripassone di molti argomenti, dai dialoghi, al tema, alla caratterizzazioni dei personaggi, per i quali è bene leggersi dei manuali più approfonditi (Bell stesso ha scritto altri tre manuali, sempre per la Writer’s Digest, Plot & Structure, The Art of War for Writers e Conflict & Suspense). Revision and Self-Editing prende per sottintese le basi e dà imbeccate per capire se tutto funziona. Chiaramente non è un granchè come per cominciare, ma molti consigli sono interessanti e vale la pena di essere letto.

Non capita di rado di percepire che qualcosa in una scena o in un personaggio non sia al suo posto, non è altrettanto semplice passare dalla sensazione che qualcosa non va alla soluzione del problema. Il manuale di Bell è utile a inquadrare i problemi e lo fa soprattutto ponendo delle domande. Ad esempio, il tale personaggio secondario che non funziona bene è un aiuto al personaggio principale o un ostacolo? Se non è nè l’uno nè l’altro il suo problema potrebbe essere proprio questo, che non ha un ruolo e non partecipa a creare tensione. Questo è il primo manuale che leggo che non spiega granchè ma perlopiù propone delle soluzioni. “La tale battuta di dialogo è piatta? Prova a torcere il linguaggio”. Posto che si accettino i suoi consigli, e grossomodo sono tutti buoni consigli, porsi una serie di domande, sempre in ogni occasione, potrebbe diventare un utile automatismo.

Domande

Tra le altre cose, Bell consiglia di fare quello che spesso si sente consigliare, cioè di intervistare i propri personaggi. Questo serve sia a costruirli, a conoscrerli, che a creare per loro una vita precedente ai fatti della storia. Ma l’intervista, o la seduta dall’analista, si può fare anche per controllare che il personaggio funzioni. Se non sapete come il vostro personaggio risponderebbe a una domanda, significa che qualcosa nel personaggio non va, che non è ancora pronto. Sono domande semplici. Che cosa t’importa di più al mondo? Quali persone ammiri e perchè? Qual’è la cosa più imbarazzante che ti sia mai capitata? Se ne possono creare quante se ne vuole.

Altre domande servono a capire se un personaggio funziona dentro la storia. Ad esempio, riguardo l’antagonista: L’antagonista è pienamente sviluppato come lo è il protagonista? Il suo comportamento è giustificato, nella sua mente perlomeno? Stai trattando il tuo antagonista lealmente? Ha tante possibilità quante ne ha il protagonista di riuscire vittorioso?

Oppure, sulle motivazioni che muovono i personaggi e regolano l’andamento della trama e delle singole scene: che cosa vuole il personaggio e perchè? Che cosa gli impedisce di raggiungere il suo obbiettivo? Se non si hanno bene in mente le risposte i personaggi e la trama fanno cilecca.

Una scena è lì che beccheggia? Puoi alzare la posta in gioco? Far sì che il personaggio sia più coinvolto? Rendere gli ostacoli più difficili da superare? Inserire un personaggio a sorpresa? Far sì che l’ambientazione  o il tempo atmosferico peggiorino la situazione? E via così. Sono tutte possibili soluzioni.

Trucchi

Altri consigli di Bell da tenere in mente sono “trucchi”. In praticamente tutti i manuali di scrittura su praticamente tutti gli argomenti c’è scritto e ripetuto che ogni parola del testo deve avere una funzione nella storia, se non ce l’ha è inutile, è un corpo morto, deve essere eliminata. Ma Bell ci aggiunge un pezzo, un pezzo che in realtà si intuisce da soli dopo un po’, e cioè che per scrivere bene non basta che ogni parola abbia una funzione, ne deve avere almeno due. Un dialogo che non serve a niente è uno strazio, ma un dialogo che serve solo a passare informazioni è, alla meglio, fiacco. Se invece mentre passa delle informazioni il dialogo esprime anche lo stato d’animo di un personaggio, allora sì che funziona. Una descrizione non dovrebbe dare solo informazioni sull’ambientazione, ma anche creare atmosfera, eccetera eccetera.

Oppure sistemi per aggiungere pepe. Il tuo personaggio deve fare una scelta? Viene istintivo dargli una scelta giusta e una sbagliata, una positiva e una negativa e poi lasciarli prendere la sua decisione. Ma se invece le soluzioni fossero entrambe negative? Non importa cosa il personaggio scelga, si troverà comunque in una situazione senza via d’uscita.

Interessante, anche se penso non originale, è l’idea di considerare l’ambientazione come un altro personaggio. Aiuta a tenere a mente che le difficoltà si possono creare semplicemente, e comodamente, manipolando l’ambiente.

Visto che sono un po’ tignosa e mi chiedo sempre quale sia l’origine pratica di ciò che gli autori scrivono sui loro manuali, mi sono procurata un romanzo di Bell per vedere cosa il nostro brav’uomo combina quando è lui a scrivere. Bell scrive thriller ma ha scritto anche un paio di romanzi rosa d’ambientazione storica. Eliminando a priori i rosa, che oltretutto hanno una copertina che mi ricorda troppo da vicino Harmony, e visto che vanno tanto tanto di moda zombie e vampiri, e tutti leggono di zombie e vampiri tranne me, e tutti scrivono di zombie e di vampiri tranne me, ho deciso per Pay me in flesh (pubblicato sotto lo pseudonimo di K. Bennett). Protagonista una zombie avvocata e che nel prossimo caso dovrà difendere una vampira accusata di un omicidio che un realtà è stato lei a compiere. Questo il riassunto minimo delle prime venticinque pagine che ho letto ieri sera.

La prima impressione è che i consigli di Bell funzionano. Il problema è che restano in superficie, immediatamente visibili. Capisci subito quel’è l’obbiettivo del protagonista, che strada sta seguendo l’autore, lo scheletro del romanzo è molto vicino agli occhi del lettore. Immagino che per il lettore medio non faccia nessunissima differenza, anzi. Per me i tira e molla con il lettore alla fine diventano prevedibili, sono a pagina venticinque ma riesco a individuare con mezzo paragrafo di errore dove ci sarà il prossimo gancio al lettore. Ho anche l’impressione che ossessionarsi così tanto sul mettere una svolta all’inizio di ogni capitolo e una frase d’effetto alla fine, e lo stesso schema ripetuto per ogni scena, diventi limitante. Ma è anche vero che Bell spinge molto su questa cosa, fatta in maniera meno sistematica o più leggera è un trucchetto che dà i suoi frutti in termine di lettore che continua a girare le pagine. Fin’ora Pay me in flesh mi sta garbando abbastanza, è scritto con mestiere, se tiene così per le altre duecento pagine fa una lettura piacevole. Niente di speciale, ma è un libro onesto, non pretende di essere più di que che è; ed è molto più di quello che offrono tanti megaseller.

The Elements of Style – Elementi di stile – manuale

The Elements of style è un classico dei manuali di scrittura, al di là delle varie edizioni, io faccio riferimento all’ultima, la quarta, è un testo che ha le sue origini in un libretto scritto e dato come dispensa all’università dal professore d’inglese William Strunk nel 1919. Il professore, visto che i suoi allievi ripetevano perennemente gli stessi errori decise di buttar giù il volumetto, un bignami di stile.

Elements of style non è un manuale di narrativa, i principi che contiene sono generici e mirano a rendere qualunque linguaggio scritto comprensibile ed efficace. Nel tempo sono state fatta aggiunte, ma è rimasto un libricino sottilissimo e denso. D’altronde una delle regole d’oro più volte ribadita nel vari capitoli è quella di non sbrodolarsi, mai usare due parole quando se ne può usare una sola.

Esisite anche una versione italiana, pubblicata dalla casa editrice Audino in quella serie di manuali di scrittura con la copertina beige, manuali di script (la versione inglese è della Longman). Non mi è riuscito di trovare sul mulo la versione italiana, per cui amen. Immagino che alcuni capitoli siano sensibilmente diversi dalla versione inglese, me lo auguro.

Trattandosi di un manuale di stile, i principi generici, come tutti i principi della narrativa, valgono in inglese come valgono in italiano, come valgono in swahili. Ciò non toglie che quando ci si addentra nei meandri della sintassi e della grammatica per vedere come vengono messi in pratica quei principi, non è detto che in due lingue diverse si incontrino gli stessi problemi. Se il discorso di usare gli avverbi con le pinze, e di metterne al muro quanti più possibile, vale in inglese quanto in italiano, un consiglio sul genitivo sassone ha motivo di esistere solo in inglese, mentre in italiano varrebbe la pena spendere due parole, ad esempio, sul tempo imperfetto. Quando poi si scende ancora più nel particolare e si analizzano i più comuni errori d’uso, è chiaro che tutto cambia passando da una lingua all’altra.

Elements of style è un manuale interessante anche se letto in versione inglese, in più si trova facilmente. Nel proseguo dell’articolo faccio riferimento alla versione inglese.

Il manuale è organizzato in regole elencate e numerate come comandamenti. Le regole che non riguardano la grammatica nuda e cruda non devono essere prese come ordini, e neppure come comandamenti, ma come ottimi consigli. Come dire: se esci dal seminato poi le croste te le gratti tu.

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Capitolo 1 – Regole d’uso.

Il primo capitolo è una selezione di regole di costruzione grammaticale che più facilmente vengono disattese dagli aspiranti scrittori. Alcune valgono anche per l’italiano, altre no. In ogni caso non è nulla di trascendentale, se conoscete la vostra lingua come si deve le applicate già da soli. Ad esempio, la regola di non mettere la virgola tra soggetto e predicato è per me un ricordo delle elementari. Leggendo quello che si scrive in giro riconosco che non è così ovvio che tutti lo sappiano…

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Capitolo 2 – Elementi di composizione

Capitolo molto utile perché contiene regole applicabili anche all’italiano. In realtà in italiano ne servirebbe qualcuna in più vista la grammatica un po’ più stronza di quella inglese.

12) Scegliete uno schema adatto e mantenetelo.

Quando ci mettiamo a scrivere, i dettagli della scena e le cose da dire vengono in mente in un ordine tutto nostro. Non è detto che quello sia l’ordine giusto in cui scriverle. A seconda dell’effetto che si vuole ottenere e delle necessità del momento è bene creare un ordine, o un disordine, ben definito e attenervisi. Il lettore avrà più facilità a seguire i passaggi logici/visivi/psicologici o quel che è.

13) Fate del paragrafo l’unità base della composizione.

Tradotto: non mettere i punti a capo a capocchia. (Non mettere niente a capocchia.)

14) Usate i verbi all’attivo

La voce attiva è… attiva. È immediata, diretta, precisa. Il passivo è… passivo. È indiretto, lavora di sponda e costringe a un giro logico in più. Non che il passivo debba essere bandito, ma andrebbe usato solo quando c’è una ragione precisa, tipo che si vuole sottolineare la condizione di passività; altrimenti andate giù di attivo.

Ci sarebbero anche i verbi riflessivi, trascurati in inglese perché praticamente non esistono. Qui dico la mia. Nelle scene d’azione, in cui bisogna essere veloci e pregnanti, preferisco, potendo scegliere, i verbi attivi, che non hanno il pronome di mezzo. Per il resto, i verbi riflessivi sono così importanti e semplici da usare che non fa differenza.

15) Mettete le affermazioni in forma positiva.

Idem con patate. Perché negare per affermare? Se si afferma si afferma, se si nega si nega. Chi nega per affermare spesso lo fa per timidezza o per disagio, non è sicuro di quello che scrive e allora smussa il tono negando per affermare. Mai indebolire la propria scrittura.

16) Usate un linguaggio concreto e specifico.

E qui si tocca un punto fondamentale. Al lettore bisogna dare qualcosa di fermo e sicuro a cui aggrapparsi perchè possa figurarsi la scena. Bisogna dargli dettagli specifici, precisi e concreti. Dettagli concreti necessitano di un linguaggio concreto. Essere concreti e specifici rende tutto più vero. Certo, se siete insicuri, se non sapete neanche voi cosa scrivere, vi rifugerete nella vaghezza e nel generico, così tanto tutto va bene, con la scusa che “così il lettore può lavorare di fantasia”. Il lettore lavora di fantasia se ha qualcosa su cui lavorare, se state sul teorico e sul generico si addormenterà dopo due righe.

17) Omettete le parole inutili.

Dire una cosa con più parole del necessario equivale a prendere il vino e annacquarlo. I verbi pleonastici, le ripetizioni, le seghe mentali, le diarree linguistiche… Se si usano le parole che sono necessarie, e solo quelle, la scrittura risulta forte e saporita. Di nuovo, le lungagginerie sono spesso segno di timidezza o di insicurezza.

In generale, omettete ciò che è inutile alla vicenda. Se state raccontando del vostro cane Paco che si perde nella Foresta Oscura e ritrova la strada di casa, è inutile raccontare della vostro prozia Andreina che si è spaccata un femore inciampando in giardino mentre raccoglieva margherite. Distrarrete dal punto della questione, mischierete il pane con la focaccia, indebolirete la storia e rischierete di annoiare senza ottenere vantaggi in cambio.

18) Evitate le successioni di periodi scollegati fra loro.

Beh, è un corollario della 12. Metteteci un ordine e collegate le frasi in maniera logica. Vale per la singola frase come per i romanzi interi: seguite una direzione.

19) Esprimete idee simili in forma simile.

Collegato al discorso di prima. Se la forma sintattica che scegliete corrisponde al ragionamento che volete esprimere, la scrittura risulta più chiara, più immediata. Il manuale fa esempi molto terra terra, ma il discorso è ugualmente importante quando si gestiscono non più singole parole, ma interi periodi.

20) Raggruppate insieme le parole correlate fra loro.

C’è bisogno di spiegarla? Sempre stesso discorso, metteteci un ordine che abbia direzionalità.

21) Usate sempre lo stesso tempo verbale.

Quarta elementare.

22) Mettete le parole da enfatizzare alla fine della frase.

Banale direi. Se la frase ha una direzionalità verso una parola è chiaro che quella parola deve stare in fondo. Fare il contrario sarebbe come scoccare una freccia con le piume sulla punta. Basta un po’ d’orecchio e molto allenamento.

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Capitolo 3 – Alcune questioni di forma.

Alcuni consigli di questo capitolo sono utili, tipo l’uso del punto esclamativo o dei colloquialismi, altri valgono solo per l’inglese.

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Capitolo 4 – Parole ed espressioni mal utilizzate

Immagino nella versione italiana questo capitolo sia stato scritto ex novo.

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Capitolo 5 – Un approccio allo stile

Il capitolo più interessante.

1) Mantenetevi in disparte.

Una delle cose più fastidiose è trovarsi lo scrittore in mezzo ai piedi una pagina sì e l’altra pure. Lo scrittore che pontifica, lo scrittore che giudica, per non parlare del sempre odioso scrittore che insegna, o dello scrittore io-sono-un-genio-voi-non-siete-in-grado-di-capire. In alternativa c’è lo scrittore ingenuo che pensa che la sua vita personale di pischello di vent’anni freghi a qualcuno, lo scrittore che non si accorge che l’autobiografia è il genere più difficile in assoluto, lo scrittore che vuole emulare i Grandi Classici e via di questo passo.

Se volete esprimere idee politico-sociali-reigiose e spargere in giro la segatura delle vostre seghe mentali, scrivete un saggio. Se scrivete narrativa tenetevi fuori dal palcoscenico, non è quello il vostro posto.

2) Scrivete in modo naturale.

Copiare è giusto, è così che s’impara, guardando come fanno gli altri. È sbagliato farlo deliberatamente, è sbagliato emulare. Trovate il vostro modo di scrivere, non ricopiate a papera lo stile di un altro.

5) Lavorate avendo in mente un progetto.

Dovete sapere dove volete andare a parare altrimenti non saprete in che direzione far progredire la storia. Aggiungo che dovete avere ben presenti anche quali sono i progetti dei vostri personaggi.

4) Scrivete con sostantivi e verbi.

Pensatela così: se io voglio andare al sodo, esprimere la sostanza in quello che scrivo, devo parimenti usare uno stile di sostanza. Provate a prendere la parti del discorso e a toglierne una alla volta. Vi accorgerete che le uniche di cui non potete fare a meno sono i sostantivi e i verbi. Sostantivi e verbi sono le colonne portanti, non vi tradiscono.

Ad esempio, perché usare un verbo debole per poi doverlo puntellare con un avverbio, quando posso scegliere un verbo forte, più preciso? Perché camminare velocemente quando posso correre? Perché correre disperatamente quando posso precipitarmi?

5) Revisionate e riscrivete.

Si spiega da sola. Pensare di aver raggiunto la Perfezione alla prima stesura denota o ingenuità o idiozia o un ego sterminato. Il consiglio è tanto più valido quanto più siete agli inizi.

6) Non siate troppi elaborati.

Lo stile tutto fronzoli e sciorinate irrita e annoia. A me dà l’impressione che l’autore mi stia prendendo per i fondelli, che mi stia vendendo aria fritta.

7) Non enfatizzate troppo.

Quando, presi dall’ansia di convincere il lettore che le cose stanno davvero, davvero come dite voi, enfatizzate troppo, il lettore anziché credervi diventerà sospettoso.

8) Limitare l’uso di aggettivi e avverbi.

Il manuale li chiama sanguisughe. Per gli avverbi non c’è molta pietà. Per gli aggettivi dipende quali aggettivi, quelli che mostrano sono meglio di quelli che raccontano. In ogni caso sono da usare con moderazione e mai come stampelle.

9) Non simulatevi disinvolti.

Mr. “Spontaneamente me”.

10) Regola che ha a che fare con lo spelling inglese. (Al max, per l’ita si potrbb dire d nn skrivere kosì.)

11) Non spiegate troppo.

Non ha senso definire ogni minimo dettaglio, specie se lo fate in maniera goffa. E di nuovo torna l’uso degli avverbi con l’esempio dei dialoghi dove, come principianti, ci si trova in obbligo di spiegare per forza come i personaggi parlano e invece di scrivere un semplice “disse” ci si inventa cose strane, “disse intensamente”, “disse pudicamente” eccetera. Il come i personaggi parlano deve essere mostrato dentro il dialogo, dentro le virgolette. Nelle descrizioni dei dialoghi (i cosiddetti dialogue tag) un semplice “disse” è di solito la soluzione migliore, con varianti su “chiese”, “bisbigliò”, “gridò” e simili. Di rado c’è bisogno di inventarsi altro.

12) Questa non vale granchè per l’italiano. Non costruite avverbi strani. Gli italiani di solito non costruiscono avverbi strani, ma potrebbero costruire altre stranezze. Io non sono contraria all’inventarsi termini nuovi e non mi viene affatto l’ulcera se vedo neologismi, l’importante è creare con criterio e usare se necessario, non per fare gli spendidi.

13) Assicuratevi che il lettore sappia chi sta parlando.

In generale, assicuratevi che il lettore sappia che è il soggetto della frase! Meglio dire il soggetto una volta di più che una di meno.

14) Evitate parole stravaganti.

Regola che riguarda sia le parole inventate sia l’uso di parole storpiate. È un divieto relativo. Parole stravaganti sono difficili da gestire, rischiano di risultare incomprensibili, ridicole o maldestre. Maltrattare la grammatica va bene a patto di sapere cosa si sta facendo e perché.

15) Non usate il dialetto a meno di avere un buon orecchio.

Fate in modo di conoscere bene il dialetto che volete usare e non esagerate. In generale, ogni volta che uscite dagli schemi state in guardia, abbiate ben presenti i rischi che state correndo e siate consapevole del motivo per cui vi state prendendo quei rischi. Se non avete un motivo valido, perché rischiare?

16) Siate chiari.

Oramai s’è capito.

17) Non immettete opinioni.

Vedere anche punto 1.

18) Usare le figure retoriche con moderazione.

Soprattutto, le figure retoriche devono aiutare a rendere il concetto più chiaro, non a incasinare ulteriormente le idee.

19) Non prendete scorciatoie a discapito della chiarezza.

Spesso si omette per pigrizia. Tutte le volte che scrivete “questo”, “quella volta”, “quell’uomo” “in quel caso” chiedetevi se non state omettendo. “Quello” cosa? Non scaricate mai sul lettore la fatica della scrittura.

20) Evitate le parole straniere.

Le parole straniere fanno sentire acculturato l’ignorante. C’è una ragione se i giornaletti scandalistici che compra al casalinga di Voghera sono annegati in fashion, sexy, trendy e cool. La verità è che le parole straniere, specie se di recente importazione e se usate indiscriminatamente, galleggiano come stronzi nel mare. Spiccano, attirano l’attenzione, si sbracciano e urlano “guardate quando sono figo, ho usato una parola straniera!” Se poi la parola straniera vi serve per davvero, mandate a fanculo i puristi e usatela.

21) Preferite il linguaggio convenzionale a quello gergale.

Stesso motivo della 15. Se uscite dal seminato vi prendete dei rischi, fatelo se avete ottimi motivi e se siete in grado di gestire la cosa.

Fine.

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Pensate che darsi delle regole sia restrittivo, che distrugga l’ispirazione, l’arte, il vostro personale stile?

Quando un pianista si siede alla tastiera cosa fa? Suona note a caso? No, suona note ben precise in un ben preciso ordine, con un ben preciso ritmo. Ha passato anni a studiare la tecnica e probabilmente continuerà a farlo finchè campa.

Non bisogna imparare a rispettare le regole, bisogna imparare a usarle.

On writing – Stephen King

Delle due una.

O il nostro affezionatissimo King non ce n’aveva per il belino di scrivere sullo scrivere. O non aveva nessuna voglia di star lì a far la manfrina agli altri.

Oppure è successo che una volta riassettati appunti e idee ha scoperto che il suo libro non superava le 150 pagine. E chi ha mai visto un libro di King sotto le 400 pagine? Io ho la sensazione che negli Usa i libri li vendano a peso. Così King ha rimediato scrivendo un libro sulla scrittura in cui si parla di scrittura per davvero solo il 30% del tempo, facendo però felici i suoi fan che possono godere di un po’ di sano voyeurismo.

La terza possibilità è che volesse dare le ragioni di vita per cui si è, o si diventa, scrittori. Spero non sia questa perchè è da sanatorio.

Capiamoci, non è scritto male, anzi. È un libro che non vale molto come manuale di scrittura per il semplice fatto che non è un manuale di scrittura. Se il vostro interesse verte tuttavia sull’Illustrissima Persona del King, allora buttatevici a pesce, vi piacerà da morire. Conoscerete vita morte e miracoli del nostro affezionatissimo, dall’incontro ravvicinato con la poison ivy (esilarante per altro… se sapete cos’è la poison ivy e subito dopo leggete la parola sedere… beh, la vostra immaginazione completerà senza sforzo), al tunnel delle droghe, alla passeggiatina spensierata troncata dal pazzo sul gippone. Se della sua persona non ve ne frega granché, vi annoierete a star a sentire il King che ve la remena con i giornalini scolastici e la lavanderia e i filmi visti al cinema.

Se nel bosco un giorno lo stimolo vi cogliesse, con altra foglia strofinate il tenero vostro preziosissimo

Della parte in cui racconta dei fattacci suoi l’unica utilità sta nel come racconta certi episodi, vedi quello della poison ivy o quello dell’orecchio e del pus o quello dell’incidente. Si capisce che il King è uno che quando ha un’idea buona sa scrivere. Tutto qui. Il tutto qui, a parte le correzioni di tale John Gould a pagina 52 e poco pochissimo altro, dura dall’inizio fino a pagina 114 circa. Poi arrivano consigli stilistici, considerazioni sulla trama, sulle descrizioni, sui personaggi ecc ecc, più consigli pissicologgici, più episodi di vita vari ed eventuali. A pagina 253 si torna a non parlare di scrittura.

Non ho letto granché di King. Ho parecchi ebucchi di Sua Signoria Illustrissima, ma la sua tomosità mi ha sempre scoraggiato. Perché leggere 1000 pagine dello stesso romanzo (col rischio di trovarsene 400 di ripetizioni e pippe mentali, tipo Angeli e demoni di Danno Brown) quanto posso leggere 300 pagine x3 romanzi? Domanda che mi ripeto di continuo tentando di leggere G.R.R.Martin. (Ironicamente, King è anche noto per aver scritto il racconto più breve esistente.)

Ma tant’è, di King ho letto solo Stagioni diverse, una raccolta di quattro racconti lunghi, come li chiama Sua Eccellenza. Il primo, e nettamente il migliore, è Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank che leggerei solo per il titolo e da cui hanno tratto un bel film Le ali della libertà, che non guarderei solo a causa del titolo (quello originale è The Shawshank Redemption, e mi domando: da dove sono sbucate fuori le ali? Dico io…). I secondi due racconti non sono al livello del primo e l’ultimo è ridicolo.

[…] put your desk in the corner, and every time you sit down there to write, remind yourself why it isn’t in the middle of the room. Life isn’t a support-system for art. It’s the other way around.