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Fuochi fatui IV – Hydropunk

Ed ecco il finale. Ohi ohi.

Fuochi fatui I

Fuochi fatui II

Fuochi fatui III

[…]
Chiarizia respirò a fondo, prese slancio, sganciò l’arpione e si tuffò nel mare nero.
Sprofondò nell’acqua senza curarsi di tornare a galla, imbracciò l’arpione e sparò alla cieca l’unico colpo. I vestiti e gli scarponi gli impacciavano i movimenti, lasciò andare l’arpione e nuotò verso l’alto. Sfiorò la superficie, sbuffò e prese un mezzo sorso d’aria. Le creature lo avvolsero e lo trascinarono di sotto. Chiarizia scalciò, afferrò la carne viscida e dura come acciaio che gli avviluppava le gambe. Nel taschino, sotto la giacca, infilò la mano a destra e a sinistra tra i lembi della camicia, c’era il coltellino, gli mancava l’aria, doveva salire, gli presero il polso sinistro, con l’unica mano si affannò a salire fra il gorgoglio delle bolle d’aria, l’acqua gli premette nelle orecchie, nuotò e le creature lo tirarono giù. Serrò i denti per costringersi a non respirare l’acqua, si tappò la bocca con la mano libera, e sprofondò. Le creature si strinsero ai polsi e alle caviglie, strisciavano e tiravano. Chiarizia si dibatté, graffiò la carne, schiaffeggiò l’acqua, lottò contro gli spasmi dei polmoni che invocavano aria. Gli strapparono la mano da davanti la bocca. Doveva respirare, il diaframma gli rimbalzava fino in gola, perse gli scarponi, doveva respirare. Aprì la bocca e la richiuse, inghiottì acqua e bolle, il naso e la fronte bruciarono invasi d’acqua salata. Percosse l’oscurità, si contorse, doveva respirare, si liberò una mano, la ripresero, lo tirarono giù. Chiarizia respirò un sorso d’acqua.
 
Tossì. Sputò saliva acidula mista al sapore amaro del mare.
Faceva freddo ed era fradicio. Era in piedi, legato per le spalle a qualcosa. Si mosse e scoprì di avere pareti tutt’intorno a sé. Era dentro a qualcosa.
Nel buio, davanti a lui, fluttuavano milioni di piccole luci. Un soffio d’aria fredda sibilava dietro l’orecchio destro. Tastando le superfici trovò un pulsante triangolare. Un faretto gli si accese sopra la testa.
Era in uno scafandro. Uno scafandro di metallo rivestito da uno strano cuoio del colore della pancia dei pesci. All’altezza dell’ombelico c’era uno sportello stagno che Chiarizia immaginò servisse per passare oggetti da dentro a fuori. Cibo e acqua forse. All’altezza del viso un oblò dava sull’oscurità.
Tossì. Di fianco al primo c’era un secondo pulsante che accendeva le luci esterne dello scafandro. Chiarizia spense le luci interne per vedere meglio. Dei cavi fissati allo scafandro lo tiravano in basso.
Erano state le creature a metterlo lì dentro. Fece per scrollarsi, provare a liberarsi, poi pensò che essere sperduto negli abissi dentro una bara, senza sapere qual’era il sotto e quale il sopra, avrebbe significato l’agonia.
Aveva perso la pipa. In tasca trovò solo un pugnetto di tabacco zuppo di acqua di mare.
«Maledizione, maledizione, maledizione…»
Qualcosa gli dava fastidio sulla schiena. Era lo zaino. Contorcendosi, maledicendo le creature, lo scafandro e la ciccia di troppo sulla pancia se lo portò davanti. Lo aprì. Cinque mine, grosse come il pugno di una mano, erano intatte. Le rimise via.
Gli formicolarono le dita. L’immagine del corpo di Martinozzi gridava vendetta. La sua pipa, il regalo che gli era più caro, gridava vendetta. Il capitano DeLuca gridava vendetta.
Ascoltando il sibilo dell’aria a pressione, scrutando nell’oscurità vuota dell’abisso, Chiarizia aspettò di rincontrare le bestie.
 
Una luce azzurrognola crebbe dal basso disegnando contorni di colline e di edifici sottomarini. Angoli e archi di luce vibravano come fossero vivi. La corrente frusciò sulle lamine di metallo.
Sprofondando, Chiarizia passò accanto a una struttura di metallo più alta di una nave da crociera al cui interno girava lenta un’elica spinta dalla corrente. Pareva l’elica di una nave, ma non ne esistevano di così grandi.
Segnalati da luci, una fila di fumaioli s’innalzava nell’oscurità fuoriuscendo da un edificio senza tetto, con pareti spioventi e un lato a forma di prua al cui interno ingranaggi e catene emettevano tonfi e stridii.
Dalla fabbrica, una colonna di vapore e fuoco si accese nell’acqua e scomparve in un bagliore.
Chiarizia scese seguendo le pendici della collina verso una spianata e vide le creature. Vennero per sganciare i cavi. Avevano la pinna prensile, la proboscide, e il lungo braccio collegato al corpo, una palla grigiastra e bitorzoluta cinta da appendici semitrasparenti che ondeggiavano avanti e indietro. Una fila di puntini neri si muovevano a scatti sulla cima del corpo e alla base della pinna prensile. Occhi, che lo fissavano. Le creature non nuotavano, ma fissate a una sacca di pelle di squalo sciamavano su aggeggi ovali dotati di alette laterali e ventrali e di eliche che frullavano nell’acqua vibrando come mosconi. Aloni di luce si accendevano e spegnevano attorno agli occhi.
Chiarizia si asciugò il sudore, inspirò a fondo l’aria fresca che soffiava nello scafandro senza riuscire a sbattere le palpebre. Un altro gettò di fuoco accese gli abissi e si spense.
Chiarizia strizzò gli occhi. A sinistra, ai piedi della collina, c’era un lago, un lago d’acqua nell’acqua, immoto, color piombo. Una creatura lo sorvolò sul suo idrogibile. Le sponde di roccia sforacchiata brulicavano di granchi bianchi come neve, di cozze e di vermi orlati di tentacoli che pulsavano di luce. Dalle sponde che risalivano verso la collina estrudeva una pietra bianca che pareva ghiaccio o gesso. E dalla pietra sgorgavano nugoli di bollicine. Le bolle salivano dal fino a un cono di pelle trasparente con un intelaiature di metallo che le raccoglieva e le aspirava in un tubo.
Le creature spinsero lo scafandro verso il fianco della collina, dove la roccia era stata scavata e i massi tagliati per farne una costruzione nera, bucherellata come un alveare e popolata da una moltitudine di creature, che la rendevano tanto luminosa da farla sembrare un faro. Dai buchi sporgevano ovunque tubi, proboscidi, banderuole di cuoio e idrogibili. Era la loro casa, vivevano lì.
Chiarizia tastò la rotondità delle mine contro la schiena.
Quello era il posto per farle esplodere. Non potevano vederlo dentro. Poteva farle cadere una per una. Anche se se ne fossero accorti sarebbe stato troppo tardi. Lui sarebbe morto nell’esplosione, ma meglio così che asfissiato nello scafandro o divorato.
Le creature spinsero lo scafandro sempre più vicino all’edificio. Chiarizia accarezzò la mina, sfiorò la sicura.
 
Lo accostarono al lato di dritta dell’edificio, dove l’attività ferveva meno frenetica, ma fosse come fosse, parecchie centinaia sarebbero morte con lui nell’esplosione o nei crolli.
Un singolo oblò era imbullonato alla pietra. La luce che emetteva era diversa, più normale, più elettrica.
Chiarizia afferrò la mina. Una volta vicino non aveva che da togliere la sicura, appoggiare la mina nel vano e buttarla fuori. E contare quindici minuti.
Spense le luci esterne. Il sudore gli pizzicava sulla fronte. Forse avrebbe avuto tempo di gettarne altre. Digrignò i denti al pensiero.
Incastonato nella roccia bitorzoluta e punteggiata di anfratti, l’oblò era illuminato da dentro. Vermetti e mitili ne incrostavano i bulloni.
Chiarizia prese un respiro profondo. Infilò l’indice nell’anello della sicura.
Una figura si mosse dietro l’oblò.
Ora o mai più. Con un colpo secco Chiarizia strappò la sicura.
Alzò gli occhi.
«Lara…»
Attraverso i due vetri dello scafandro e dell’oblò riconobbe il mento a punta, i riccioli ribelli, gli occhi neri come la notte che regnava perenne negli abissi. Il capitano Lara DeLuca.
La sua amata allungò le dita come per accarezzarlo sulle labbra e gli sorrise.
«Lara.»
Gli tremò la mano.
 
Fine
 

I commenti sono bene accetti, giuro che non strangolerò nessuno. (Leathy, la motosega!)

Fuochi fatui II – Hydropunk

Questa è la seconda parte del racconto Fuochi fatui. Prima o dopo lo impaginerò e ne farò un Epub, poi poi poi…

Fuochi fatui I

[…]
Chiarizia lasciò il timone all’irlandese che erano le due di notte. Si dirigevano verso il monte Magnaghi, dentro la piana abissale. Avrebbero navigato tutta la notte su acque a più di duemila metri di profondità, lontano dai monti sottomarini, nelle cui vicinanze si trovavano più spesso i fumaioli.
Chiarizia buttò la giacca sulla sedia, liberò le budella dalla stretta della cintura e frugò nel cassetto del comodino in cerca della riserva di tabacco. Anche un bicchiere di mirto gli avrebbe fatto bene.
Tirò dalla pipa, assaporò le volute di fumo socchiudendo gli occhi. La brandina scricchiolò sotto il suo peso e Chiarizia rimirò i trofei appesi al soffitto. Quindici fumaioli, dai sette i venti centimetri di diametro. Il più grande di tutti stava in cabina di comando al posto del pesce spada imbalsamato di quando aveva iniziato il mestiere. L’aveva buttato a mare, era un relitto da museo. Adesso Chiarizia dava la caccia ai fumaioli e incendiava le bolle di metano.
Fece ondeggiare il mirto nel bicchiere. Se n’era versato troppo poco. Si sfilò gli scarponi e si appoggiò il bicchiere sulla pancia. Il borbottio di fondo delle macchine lo faceva sentire al sicuro, nel ventre della sua barca, con l’aroma dolce del fumo che si diffondeva nella cabina.
Persino i cacaracci gli erano venuti in simpatia, meglio loro di quei mostri assassini che avevano rovinato la pesca, rovinato le coste, rovinato l’aria, rovinato tante città. Aveva conosciuto DeLuca a Venezia. Avevano rovinato tutto.
Il sonno gli intorpidì le mani, la pipa spenta gli penzolò dalla bocca, il ronzio delle macchine lo cullò nel dormiveglia.
«Capitano! Capitano!»
Chiarizia saltò in piedi. La sirena suonava. Raccolse la pipa da terra. «Arrivo, maledizione.»
Sul ponte l’irlandese e Sebastiani gli andarono incontro.
«Di dritta, capitano.»
A meno di duecento metri bruciavano lingue di fuoco blu. Sbucavano dritte dal mare come chiome di sirene.
«Macchine ferme,» urlò alla Rosi in cabina.
Martinozzi sbucò da sottocoperta in canottiera. «Cosa succede?»
«Fuochi fatui,» Chiarizia lo prese per le spalle e lo mise seduto sulla pila di cordami di fianco all’argano. «Stia fermo qui e non faccia niente.»
Il mare era calmo, i fari sotto la Sirena illuminavano di bianco le onde intorno alla barca.
«C’è niente sotto?»
«No,» disse Sabastiani porgendogli un binocolo. «Ho appena controllato.»
I fumaioli sporgevano inconfondibili poche decine di centimetri sopra il pelo dell’acqua.
«Li catturiamo, capitano?» gli occhi dell’irlandese luccicarono.
Chiarizia si passò le dita nella barba sfatta di tre giorni. Di solito i fumaioli erano sui fianchi di un monte sommerso, non su piane abissali. Comunque fosse, erano lì. E se c’erano i fumaioli, da qualche parte c’erano anche le bestie.
«Alzate i palloni,» ordinò.
Sebastiani e l’irlandese corsero sottocoperta. Chiarizia mosse l’argano e calò il gommone in acqua.
I sei palloni si alzarono a due a due. Appena i cavi d’acciaio si tesero, l’elio soffiò dentro la tela e la gonfiò. I palloni si toccarono e s’alzarono come respingenti inclinando la nave prima da un lato, poi verso poppa. Dagli ombrinali colò acqua e infine il mare si staccò dallo scafo, gocciolò giù per le fiancate e brillò illuminato dai fari.
«Basta così.»
La Rosi fermò l’elio, gli sfiatatoi fischiarono e la nave si assestò a circa quattro metri dalla superficie calma del mare.
Martinozzi si sporse dal parapetto a guardare le acque.
Chiariza lo afferrò per la collottola. «Che ho detto? Stia lì, fermo.»
Martinozzi si stropicciò la tela dei calzoni. «Ne catturerete? Di bonellie? Almeno la proboscide, se potessi analizzarla, come risolve l’ipobarometria, uncini prensili, ocelli…»
«Stia fermo qua. E speri solo di non incontrare quelle bestie.»
«Io ho bisogno di dati, capitano! Dobbiamo sapere chi sono, cosa vogliono, io…»
«La devo legare all’argano?»
«Mi faccia almeno andare a prendere i miei strumenti.»
«Tenga d’occhio l’acqua. Se vede delle pinne cacci un urlo. In cabina di comando c’è un sensore, se scatta l’allarme la Sirena è dentro una bolla di metano. Non tocchi niente per carità e lasci fare alla Rosi. Ha capito?»
Martinozzi annuì.
«Va bene, vada a prendere le sue cose.»
Martinozzi si precipitò. Chiarizia si calò con l’irlandese e Sebastiani nel gommone, dove erano pronti il sensore, due bombole, lo zaino con le mine, quattro arpioni e lo scaccio.
Nella luce bianca dei fari che sporgevano dalla scafo della Sirena l’irlandese e Sebastiani affondarono le pagaie nell’acqua nera. Non c’era vento, non c’erano correnti di superficie, i fuochi balenavano in verticale come spiritelli.
Chiarizia mordicchiò il bocchino. Le creature che fabbricavano i fumaioli erano avanzate, ma niente poteva far innalzare un tubo per tre chilometri senza che si spezzasse, specie con le correnti che dall’Atlantico spingevano come muri d’acqua. Eppure i fumaioli erano lì, a portata di voce l’uno dall’altro.
I fuochi ribollivano e borbottavano in un turbinio di lingue azzurre e verdi. L’aria seccava le labbra, aveva l’aroma surriscaldato dell’ozono e un retrogusto freddo, di alga, che faceva rizzare i peli sulle braccia. Era solo una suggestione, Chiarizia si impose di non pensare alle gelide profondità marine. Una tomba.
«Passa. Vai a quell’altro,» Chiarizia indicò il fumaiolo più grosso.
Controllò le mine, programmate per esplodere quindici minuti dopo il rilascio. Il fumaiolo doveva saltare alla base, di modo da spezzare pozzi sotterranei, fabbriche, depositi di bestie in decomposizione, qualsiasi cosa là sotto fosse la causa del metano. Se le mine fossero esplose vicine alla superficie il metano avrebbe continuato a salire in sciami di bollicine.
L’irlandese e Sabastiani indossarono le maschere. Chiarizia infilò i guanti. «Lo scaccio.»
Gli porsero l’asta di metallo con all’estremità il cappuccio conico. Mentre Sebastiani lo teneva per le spalle perché non cadesse, Chiarizia si sporse sull’acqua allungando lo scaccio sopra la bocca del fumaiolo. L’irlandese avvicinò il gommone di una spanna.
Il fuoco azzurro arrostiva le pupille, l’aria grattava come pelle di squalo. Il cappuccio sfiorò il fumaiolo e cadde in acqua, Chiarizia rialzò la sbarra facendo leva sulle braccia, strinse la presa sullo scaccio e sulla pipa, il sudore gli inzuppò i guanti e i capelli,.
«Appena più avanti,» borbottò sotto i denti. I tendini delle spalle gli bruciavano come punture di meduse. Appoggiò lo scaccio sulla bocca del fumaiolo. Chiuse gli occhi.
Il fuoco avvampò ai lati con una fiammata e si spense. Chiarizia attese qualche secondo poi tolse lo scaccio.
Dal fumaiolo usciva il sibilo del metano.
L’irlandese accostò il gommone al fumaiolo, Sebastiani con una forcella si assicurò che il gommone non toccasse il metallo, Chiarizia strappò la sicura e gettò la mina.
«Via.»
L’irlandese e Sebastiani girarono il gommone e remarono.
«Ma dov’è?» ansimò Chiarizia.
[…]
 

Fuochi fatui III

Come sempre, i commenti sono ben accetti.

Fuochi fatui – Hydropunk

Visto che il concorso Hydropunk ha chiuso la fase di raccolta dei racconti, mi prendo la libertà di pubblicare la prima parte del mio, poco meno di un quarto della lunghezza. E’ la quarta revisione, che ho deciso arbitrariamente essere l’ultima, ma rileggendo ora vedo che c’è qualcosina da mettere a posto. C’è sempre qualcosina da mettere a posto. Il titolo è Fuochi fatui.

Il capitano Chiarizia liberò la cima dalla bitta e la lanciò al marinaio sul ponte della dragamine. Sebastiani, al timone, allontanò la Sirena dalla dragamine e dalla traiettoria delle eliche.
Il marinaio sventolò il berretto, le eliche spazzarono le onde. I palloni aerostatici tiravano i cavi d’acciaio, la dragamine virò in equilibrio cinque metri sopra il pelo dell’acqua e una nuvola di spilli sbuffò dal mare. La nave virò verso Capo Carbonara seguita da un arcobaleno d’acqua vaporizzata.
Chiarizia si asciugò la faccia con la manica della camicia.
Centellinò il poco tabacco rimastogli e si accese la pipa. Il nuovo arrivato, che la dragamine aveva pescato dritto dritto dalla terraferma, salì a prua con lui.
Martinozzi sorrise. Scarpe di tela, calzini bianchi, mani bianche, vecchio orologio d’oro e gel nei capelli. Chiarizia si gustò l’aroma sulla lingua.
«Queste sono le boe?» Martinozzi indicò la tela ripiegata del pallone aerostatico che dalla cala di prua usciva sul ponte di comando. «Ci troveremo a usarle secondo lei?»
«Se avvistassimo fuochi fatui.»
Martinozzi guardò il cielo che imbruniva. Masticava qualcosa.
«Tabacco?» chiese Chiarizia.
«Cosa? No, gomma. Per il mal di mare.»
«Oh.»
«Non avevo mai visto un’intera nave portata dalle boe. Anche la Sirena può sorvolare il mare?»
«Quella là è una nave sperimentale e la Sirena è solo un vecchio peschereccio,» Chiarizia accarezzò la balaustra, il fianco dipinto di bianco e di blu. «Se avremo sentore di quelle bestiacce, un fuoco fatuo, una bolla di metano, se venissero a grattarci la chiglia, gonfieremo i palloni con l’elio e ci solleveremo, ma saremo immobili. La vede quella cima? Se s’impiglia, il pallone non sale, la nave s’inclina da una parte e qualcuno finisce in acqua. E lo vede il gancio? Se i miei marinai non arrivano in tempo a sganciarlo i palloni non si alzano, non si gonfiano e noi rimaniamo coi piedi al bagnato.»
Martinozzi aprì il collo della camicia. «Non darò fastidio, capitano.»
«Si è già sistemato sottocoperta? Sì? Allora si cambi le scarpe. Se qualcosa le va su un piede e ne fa una sogliola mi aspetto che lei continui a camminare.»
«Ma la mia attrezzatura, il microscopio, i ferri?»
«L’irlandese e la Rosi hanno sistemato tutte le sue faccende nella stiva.»
Chiarizia fece segno di seguirlo.
 
La vecchia cella frigorifera era stata smantellata. Le pareti d’acciaio nudo vibravano a contatto con la sala macchine. La Rosi, in piedi nell’angolo opposto al portello, sollevò il disco Secchi facendolo oscillare.
«L’hai sistemato quell’aggeggio?»
«Sì, capitano. Si era solo slegato, nessun problema.»
«Niente?»
Chino sul visore, Sebastiani ruotò il periscopio sott’acqua. «Blu, blu, blu e blu.»
Sul tavolo inchiodato al pavimento affianco al periscopio, la Rosi aveva sistemato l’attrezzatura di Martinozzi.
Chiarizia aprì una custodia di pelle nera e osservò i bisturi e le pinze aspirando le ultime boccate dalla pipa. La roba del biologo sapeva di disinfettante e di sapone per i piatti. Aveva portato a bordo fogli plastificati, boccettine e alambicchi, cannucce graduate, una collezione di contenitori in plastica con etichette tra le più ingarbugliate che Chiarizia concepisse, il microscopio con quattro ingrandimenti, vetrini, dei libri, un taccuino.
Con la coda dell’occhio Chiarizia vide che Sebastiani invece di controllare il periscopio se ne stava a cavalcioni dello sgabello a fissare la Rosi con una faccia da tonno. La cima del disco Secchi si era tutta impigliata e annodata.
«Ha mai sezionato una di quelle bestiacce?»
«Le ho studiate,» rispose Martinozzi. «Non sono facili da catturare. E poi non sono bestiacce.»
«Ah no?»
«Sono intelligenti. I resti dei fumaioli ne sono una prova inconfutabile.»
«Intelligenti, eh?»
Martinozzi sistemò i piedini sotto il microscopio. «Non crede che siano intelligenti?»
Chiarizia tirò dalla pipa. «Sebastiani!»
«Sì? Sì, capitano.»
«Il periscopio!»
«Mi scusi, capitano.»
Chiarizia sedette sul tavolo e sui taccuini di Martinozzi. «In vista delle coste sarde, a cinque miglia dalla scarpata, l’equipaggio di un ex peschereccio simile alla Sirena sentì un rumore di metallo venire dalla carena. Poteva essere un galleggiante alla deriva, un tronco, un pezzo di qualcosa. Il fondale sarà stato di seicento metri. Fuori bordo non c’era niente di niente. Si misero al periscopio e videro delle ombre, come delle cime arrotolate al timone. Poi videro una coda. Una pinna verde, e sentirono il rumore di un trapano che forava lo scafo. In cinque minuti la sentina era allagata, il fondo aperto come una scatola di sardine. In dieci minuti la nave affondò. Io ero vicino, raccolsi un marinaio. Non trovai gli altri quattro, né il capitano DeLuca. Erano andati giù. Il marinaio disse che le pinne lo avevano afferrato per le gambe,» Chiarizia picchiettò il fondo della pipa buttando per terra cenere e fondiglio ancora tiepidi. «Conoscevo bene il capitano DeLuca. Mi regalò questa pipa, l’ultimo regalo che mi fece, un giorno prima di scomparire là sotto. Se penso che quelle bestie sono intelligenti? Oh, sì. Sono intelligenti. Chissà cosa nascondono, che piani hanno.»
«Bisogna trattarle con rispetto.»
«Sebastiani! Il periscopio! Rispetto? Se ne pesco una gli stacco pinne e squame una a una.»
«Non hanno né pinne, né squame,» disse Martinozzi. «Sono bonellie.»
Chiarizia aveva bisogno di un’altra fumata. «Vada a riposarsi, sarà stanco,» disse. «Qui dobbiamo fare i turni al periscopio, lei farà il turno del mattino. E si cambi le scarpe.»
 […]
 
Vai a Fuochi fatui II
 

I commenti sono ben accetti.

Lista delle scene – Concorso Hydropunk

Ordunque, avevo parlato del concorso Hydropunk qui e avevo detto che forse avrei partecipato. Beh, l’altra settimana, alleluja, ho finito di buttare giù la prima stesura, e ieri, altro alleluja, ho finito la prima revisione.

Lo stile era un crimine contro l’umanità. C’erano cose che mi erano venute in mente a metà e dovevo tornare indietro ad aggiustarle. E… era di circa 1000 parole troppo lungo.

Sforare di mille parole su un massimo consentito di 5000 non è male. Per fortuna nella prima stesura c’è sempre una marea di fuffa e di ripetizioni.

Ho però fatto una cosa che non avevo mai provato, ho listato le scene del racconto per visualizzarle meglio. Essendo “solo” 11 non è un gran problema, ma visto che voglio applicare lo stesso sistema anche a un lavoro che di scene ne ha abbondantemente oltre il centinaio, ho fatto qui la prova.

Ecco la lista delle scene del racconto.

Numero Titolo Lunghezza Tensione Tipo
1 Dragamine 560 4 Descrizione-Dialogo
2 La Margherita 509 6 Dialogo
3 Cabina del capitano 309 5 Descrizione-F. interiore
4 I fuochi fatui 1089 8 Azione-Descrizione
5 La Sirena 570 7 Dialogo-Azione
6 La bonellia 534 6 Dialogo-F.interiore
7 L’attacco 844 8 Azione
8 Annegamento 313 9 Azione
9 Lo scafandro 375 7 Descrizione-Azione
10 Il mondo delle bonellie 601 8 Descrizione
11 DeLuca 252 10 Descrizione-Azione

Numero e Titolo delle scene non hanno importanza tecnica, servono solo per contarle e identificarle.

Il numero di parole permette di vedere a occhio i rapporti di lunghezza. Essendo questi numeri relativi alla prima stesura è naturale che siano un po’ traballini. La prima stesura è disordinata e lo è in maniera disomogenea. Revisionando, alcune scene si sono sensibilmente accorciate, altre sono scese solo di una manciata di parole. In ogni caso il rapporto tende a rimanere simile. “I fuochi fatui”, la scena più lunga, è calata da 1089 parole a 843, ma resta la scena più lunga. La seconda scena “La Margherita” è passata da 509 a 497, ma in realtà è calata anche lei di almeno un centinaio di parole, non si nota solo perchè nella revisione ho aggiunto qualcosa che prima non c’era. Mi ha fatto impressione l’ultima scena, che nonostante sia la scena con maggiore tensione (è quel che spero io perlomeno) non solo era in partenza la più breve, ma è calata ancora da 252 a 197. Per dire, la scena più importante era già la più breve e ancora non aveva bisogno di tutte quelle parole. Anzi, con meno parole funziona meglio. Ciò che conta è il contenuto e se un numero inferiore di parole trasmettono lo stesso contenuto significa che la scrittura è diventata più densa, più forte. Troppe parole sono come l’acqua nel vino.

Altra cosa interessante da fare è dare un “punteggio” da 0 a 10 alle scene in base alla loro tensione. La tensione all’interno delle scene non è uniforme. Nella stragrande maggioranza dei casi tende ad avere dei picchi intermedi e a raggiungere l’apice alla fine. Il punteggio è assegnato considerando la tensione media, ma resta una valutazione soggettiva. Diagrammino.

In ascisse le scene, in ordinate la tensione. L’andamento della tensione dall’inizio alla fine della narrazione è simile all’andamento interno di una qualunque scena. Non è uniforme, parte a un livello più o meno alto, ha dei picchi intermedi e raggiunge il suo massimo alla fine.

La tensione delle scene è una conseguenza del ritmo della narrazione, cioè della velocità con cui i fatti sono narrati. Non è detto che a un ritmo più lento corrisponda una tensione minore, si pensi alla “quiete prima della tempesta”, la situazione in cui non succede niente, ma sta per succedere qualcosa. E’ invece sempre vero che quello che si percepisce leggendo non è tanto la velocità quanto l’accelerazione. Se pensate di creare più tensione andando veloci sbagliate, la tensione è frutto soprattutto delle accelerazioni. Questo significa che non si può andare sempre alla stessa velocità, rapida o lenta che sia, e non si può sempre accelerare, o ad un certo punto si arriva a un ritmo insostenibile per chi scrive e nevrotico per chi legge. Così come bisogna accelerare, così bisogna frenare. Da qui i picchi intermedi.

Immaginate che il vostro gatto faccia cadere un piatto nel bel mezzo della notte e che quello si sfracelli a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state sognando pacifici, accoccolati nel vostro nido di coperte. Farete un salto in aria, vi verrà la tachicardia, stramaledetto gatto! E se invece qualcuno facesse cadere un piatto nel bel mezzo di una discoteca e quello si sfracellasse a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state urlando nell’orecchio del vostro migliore amico che quella sera volete sbronzarvi fin nelle scarpe perchè la ragazza vi ha mollato, a malapena gli concedereste uno sguardo al piatto. Ma è lo stesso piatto che cade allo stesso modo. Più del rumore assoluto conta il rumore relativo. Certo che se fate esplodere una bomba H…

L’ultima colonna della tabella descrive la scena in termini tecnici. Non dice “qui muore il protagonista”, dice che quella scena è composta in prevalenza da dialogo piuttosto che da azione e quindi dà un’idea della tipologia di scena. Le scene d’azione sono più spesso cariche di tensione, ma non è detto che una scena prevalentemente descrittiva non sia altrettanto tesa o che non lo sia una scena piena di dialogo.

Conto finale della parole alla fine della revisione: 5000 tonde tonde. Lascerò passare qualche giorno e farò un’altra revisione, confido che le parole resteranno suppergiù quelle.

Qui si può leggere il racconto.