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Fuochi fatui III – Hydropunk

Terza parte del racconto Fuochi fatui

Fuochi fatui I

Fuochi fatui II

[…]
I fari della nave non si vedevano. La Sirena non c’era.
Sebastiani si affannò a guardarsi intorno.
«Dov’è?» ripeté Chiarizia intontito dalla carenza di ossigeno.
«Sento qualcosa,» disse l’irlandese.
Chiarizia afferrò l’arpione e scrutò l’oscurità resa impenetrabile dagli occhi accecati dal fuoco.
L’acqua sciabordava pacifica, nulla si muoveva sotto la superficie.
Un urlo.
«Di là!»
Era la voce di Martinozzi. La sirena della nave lanciò l’allarme.
Sebastiani pagaiò come un forsennato, l’irlandese di fianco a lui, e Chiarizia sedette sul tubolare, l’arpione stretto in mano e la pipa stretta fra i denti, respirando a fondo per schiarire i pensieri.
Intravide la Sirena a un quarto di miglio a sud ovest, i fari erano spenti, solo la luce in cabina era accesa. Sotto il rumore di schiuma delle pagaie giungeva un lontano scroscio di spruzzi.
La voce della Rosi rimbalzò sul mare.
«Sto arrivando, sto arrivando…» mormorò Sebastiani battendo l’acqua.
Giunsero sotto la Sirena che si era fatto silenzio, i fari erano rotti, le luci in cabina e sul ponte accese.
«Rosi,» chiamò Chiarizia afferrando la scaletta di corda. «Rosi!»
La Rosi si sporse dal parapetto. «Sono qui, capitano.»
«Che è successo? Stai bene?» chiese Sebastiani.
«Siamo stati attaccati, erano le bestie. Martinozzi è caduto in acqua.»
Il capitano si issò a bordo. Sul ponte nulla era fuori posto se non per una pozzanghera, una ciambella salvagente buttata tra i cordami e una cosa, un ammasso verde bottiglia gettato sul fianco di sinistra.
«L’ho portato in cabina,» disse la Rosi mostrando le mani escoriate. «L’ho tirato su a forza.»
«Capitano!»
Martinozzi sbucò da sottocoperta sbiancato e zuppo, un calzino gli penzolava dal piede come un calamaro. «Capitano, le creature… le bonellie, volevano affogarmi.»
Chiarizia sentì montargli il mal di testa. «Portami un po’ del mio mirto, vuoi?» disse all’irlandese. «E tu disinfettale quelle mani.»
Sebastiani partì verso la cassetta di primo soccorso.
«Adesso, Martinozzi. Mi spieghi…»
«Quello che vuole, capitano.»
«…come avrebbero fatto ad affogarla?» tirò un sospiro per calmarsi. «Come cazzo avrebbero fatto se lei stava qui a bordo con cinque metri d’aria tra lei e l’acqua? Dove cazzo è il mio mirto?»
L’irlandese arrivò col mirto e una pastiglia. Chiarizia trangugiò l’uno e l’altra.
«Capitano, io…» Martinozzi allargò le braccia.
«Si è sporto dalla balaustra ed è caduto,» disse la Rosi.
«Si è sporto dalla balaustra ed è caduto?» la pastiglia si era incastrata fra i denti, sapeva di rafano.
«Io, capitano, la avevo viste sotto che cercavano di…»
Martinozzi fissava qualcosa a sinistra.
«Cosa c’è?» Chiarizia seguì lo sguardo di Martinozzi fino al cumulo verde contro il parapetto. Parevano alghe dai riflessi metallici. Chiarizia fece per raccoglierle, ma Martinozzi balzò avanti.
«Non la tocchi! È una bonellia. Oddio. Nessuno la tocchi!»
«Ce l’aveva avvolta a una gamba quando l’ho tirato su,» disse la Rosi.
Un filamento spesso come il polso di una donna, aggrovigliato su se stesso, esalava un odore fresco di mare. Da una parte terminava con una grossa protuberanza biforcuta simile a una pinna, con delle protuberanze più piccole lungo l’orlo inferiore che vibravano di una debole luminescenza. Questa era la cosa che aveva ucciso il capitano DeLuca.
Martinozzi sollevò la creatura con guanti di lattice e la posò su un vassoio di plastica. Chiarizia si fece da parte e lo seguì in cambusa.
 
Martinozzi tramestò la creatura, la tagliuzzò, immerse pezzetti nelle provette insieme alle polveri e miscelò con movimenti rotatori del polso. Prese frenetici appunti borbottando tra sé, tastò la creatura, ne esplorò la pelle e l’annusò. Chiarizia, a braccia conserte, restò in disparte.
Il fumo gli accarezzava le narici dolce come l’aroma della pelle di una donna, tre bicchieri di mirto gli avevano schiarito il cervello.
«Allora?»
«Questa non è l’intera creatura,» disse Martinozzi.
Chiarizia si sentì rimestare lo stomaco. «E dov’è il resto?»
«Sotto il mare. Questa è solo la proboscide, l’organo che usa per cibarsi e per manipolare. Queste non sono pinne, capitano. Sono la sua bocca e le sue mani. Questa specie ha sviluppato potenti fasci muscolari, per quanto mi dibattessi non riuscivo a staccarla dalla gamba.»
Chiarizia cercò di distrarsi camminando avanti e indietro. «E cosa manca?»
«Il cervello, capitano. E tutti gli organi interni. Le bonellie comuni respirano attraverso la superficie della proboscide, ma io penso che questa specie sia troppo grande e troppo attiva per una respirazione cutanea. Probabilmente l’organo respiratorio è sul corpo centrale dell’animale.»
«Il corpo centrale dice?»
«Sì, ha grossomodo la forma di un… un cedro. Più grosso di un cedro nel caso di questa specie, almeno sei volte, direi.»
«E ne hanno una sola di proboscide?»
«Penso di sì. Da come mi ha afferrato è un organo molto preciso e forse queste, vede?» toccò con le pinze le protuberanze sul bordo inferiore. «Forse sono appendici prensili, come delle dita. Altrimenti non si spiega come costruiscano i manufatti. O come facciano ad aprire lo scavo delle barche e prendere i marinai per le gambe per tirarli giù e affogarli. Potrebbero volere i corpi per qualcosa. Mi risulta siano detritivore, magari queste sono carnivore, magari gli servono i corpi per…»
Chiarizia afferrò la matassa della bonellia e la sollevò come un trofeo.
«Capitano, ma che fa? Così la danneggia.»
Era ruvida al tatto, e umida. Affogare i marinai per divorarli, bestie immonde.
«Dice che se l’appendo a poppa la vedranno? Se la trasciniamo per il mare finché non imputridisce proveranno qualcosa?»
«La rimetta giù.»
Chiarizia stritolò i resti della creatura fino a farsi male alle nocche. «Verranno a prendermi? Verranno anche per me?»
«Capitano,» Martinozzi gli appoggiò una mano sul braccio. «Lei sta piangendo.»
Chiarizia lasciò cadere i resti. Gli era salita la nausea, il mal di testa gli martellava nel cranio. Si aggrappò alla pipa con le mani impiastricciate di sangue oleoso e ci cacciò dentro il tabacco, metà cadde fuori, spaccò due fiammiferi, al terzo aspirò come fosse ossigeno.
«Capitano…»
Chiarizia diede un calcio ai resti. «Schifo.»
«Si sente bene?»
Ricacciò indietro nausea ed emicrania. «Certo. Stanchezza, ho respirato troppo metano e troppo poco ossigeno nell’ultima ora. Mi segua, dobbiamo…»
La nave s’inclino di dritta. Il microscopio si sfracellò per terra.
Chiarizia corse sul ponte.
 
Il pallone centrale di dritta collassava su se stesso, l’elio sbuffava da uno squarcio in basso.
La nave oscillò, Chiarizia si tenne alla scaletta. Sebastiani e la Rosi scrutarono le acque con le torce.
«Qualcosa è uscito dall’acqua e…»
Un oggetto appuntito come una freccia schizzò fuori dall’acqua e trapassò il pallone di poppa. La nave emise un gemito e si piegò.
«Ritirate gli altri palloni o ci ribalteremo!» urlò Chiarizia vacillando verso l’argano.
Si mise in spalla lo zaino con le mine e imbracciò un arpione. Il primo pallone colpito si afflosciò sul fianco della nave e si adagiò in mare. Il timone della Sirena sfiorava già l’acqua. Non c’era modo di salvare la nave. Chiarizia si guardò attorno spaesato. Le creature potevano aprire un buco nello scafo e loro annegare senza riuscire fare niente. La Sirena era persa.
«Sabastiani, prepara il gommone. Ce ne andiamo.»
Uno schianto rimbombò dalla pancia della nave.
«Capitano,» Martinozzi sbucò da sottocoperta bagnato fino ai gomiti. «C’è acqua dappertutto!»
Lo stridio dell’acciaio lacerava le orecchie.
«La mia nave,» mormorò Chiarizia.
L’ultimo pallone fluttuò a mezz’aria e s’immerse.
«Forza, a bordo del gommone,» disse Chiarizia agganciando l’arpione allo zaino per liberarsi le mani.
Una deflagrazione squassò la Sirena. Chiarizia si tenne alla balaustra e fu strappato per terra. Schizzi alti quanto il ponte di comando salirono dal mare. Chiarizia scivolò, la nave s’abbandonò sul fianco.
Cavi spuntati dall’acqua, agganciati alla balaustra, tirarono tesi allo spasimo. La nave gemette sotto il suo stesso peso e sotto la pressione dell’acqua che penetrava dal basso.
L’irlandese cacciò un urlo e non si sentì più.
Sebastiani si protesse sul lato di dritta, appoggiato alla cabina, gridò alla Rosi.
«Capitano, si tenga!» urlò Martinozzi appeso alla balaustra con i piedi puntati sul mucchio delle reti.
Chiarizia si aggrappò all’argano. Le gambe, senza appoggio, gli scivolarono verso la balaustra che sfiorava il pelo dell’acqua. In mare, sotto la nuvola di schizzi, si agitava un turbinio di corpi che fremevano in un brillio di luci azzurrognole.
Una proboscide balzò fuori dall’acqua e atterrò sul parapetto, s’irrigidì vibrando le appendici come per annusare l’aria e prese a strisciare.
Chiarizia puntò gli scarponi di traverso sui bulloni del ponte, con gli occhi puntati sulla creatura tastò la presa con le dita e si tirò su di peso.
La creatura cadde all’indietro, altre due spuntarono dall’acqua. La nave si curvò gemendo, Chiarizia si appoggiò sulle ginocchia e fece forza con le braccia. Un rampino fischiò fuori dall’acqua, gli ricadde a una spanna dalla faccia e si ritirò grattando il metallo.
Il gommone soffiò e gorgogliò affondando.
Il rampino cadde sui galleggianti e li strappò.
«Capitano…» Martinozzi allungò il braccio protendendosi fino a pendere a test in giù. «Si aggrappi a me.»
Chiarizia affondò la faccia nel sacco di cordami incastrato sopra l’argano e tese la mano.
Qualcosa gli toccò il piede. Una proboscide gli attorniava la caviglia. Dibatté la gamba, col tacco colpì la creatura, non poteva muovere l’altra gamba per non scivolare, fece forza sulle braccia e la creatura lo trattenne.
«Prenda la mia mano!»
Chiarizia si diede lo slancio urlando e gli afferrò la mano.
La balaustra era sommersa, l’acqua ribolliva. Chiarizia scalciò e si liberò della creatura, Martinozzi puntò il piede destro sul ponte e tirò.
Un’esplosione sconquassò la nave, il ponte fremette, la suola di Martinozzi scivolò, egli perse la presa della cima, sfuggì dalle dita di Chiarizia e cadde. Picchiò la testa su una bitta e finì in acqua.
Il sangue colò sul ponte misto agli spruzzi e il corpo avvolto tra le spire delle creature sprofondò sott’acqua.
Chiarizia si resse alla base dell’argano, le gambe annaspavano nel vuoto, i cordami slittarono e si sparpagliarono, in acqua galleggiavano brandelli della chiglia.
«Maledetti,» le braccia e le spalle lanciavano fitte, l’acqua saliva e la Sirena s’inabissava a prua. Le luci si spensero.
Non poteva più tenersi. Non c’era motivo di tenersi.
[…]

 

 Fuochi fatui IV

Fuochi fatui II – Hydropunk

Questa è la seconda parte del racconto Fuochi fatui. Prima o dopo lo impaginerò e ne farò un Epub, poi poi poi…

Fuochi fatui I

[…]
Chiarizia lasciò il timone all’irlandese che erano le due di notte. Si dirigevano verso il monte Magnaghi, dentro la piana abissale. Avrebbero navigato tutta la notte su acque a più di duemila metri di profondità, lontano dai monti sottomarini, nelle cui vicinanze si trovavano più spesso i fumaioli.
Chiarizia buttò la giacca sulla sedia, liberò le budella dalla stretta della cintura e frugò nel cassetto del comodino in cerca della riserva di tabacco. Anche un bicchiere di mirto gli avrebbe fatto bene.
Tirò dalla pipa, assaporò le volute di fumo socchiudendo gli occhi. La brandina scricchiolò sotto il suo peso e Chiarizia rimirò i trofei appesi al soffitto. Quindici fumaioli, dai sette i venti centimetri di diametro. Il più grande di tutti stava in cabina di comando al posto del pesce spada imbalsamato di quando aveva iniziato il mestiere. L’aveva buttato a mare, era un relitto da museo. Adesso Chiarizia dava la caccia ai fumaioli e incendiava le bolle di metano.
Fece ondeggiare il mirto nel bicchiere. Se n’era versato troppo poco. Si sfilò gli scarponi e si appoggiò il bicchiere sulla pancia. Il borbottio di fondo delle macchine lo faceva sentire al sicuro, nel ventre della sua barca, con l’aroma dolce del fumo che si diffondeva nella cabina.
Persino i cacaracci gli erano venuti in simpatia, meglio loro di quei mostri assassini che avevano rovinato la pesca, rovinato le coste, rovinato l’aria, rovinato tante città. Aveva conosciuto DeLuca a Venezia. Avevano rovinato tutto.
Il sonno gli intorpidì le mani, la pipa spenta gli penzolò dalla bocca, il ronzio delle macchine lo cullò nel dormiveglia.
«Capitano! Capitano!»
Chiarizia saltò in piedi. La sirena suonava. Raccolse la pipa da terra. «Arrivo, maledizione.»
Sul ponte l’irlandese e Sebastiani gli andarono incontro.
«Di dritta, capitano.»
A meno di duecento metri bruciavano lingue di fuoco blu. Sbucavano dritte dal mare come chiome di sirene.
«Macchine ferme,» urlò alla Rosi in cabina.
Martinozzi sbucò da sottocoperta in canottiera. «Cosa succede?»
«Fuochi fatui,» Chiarizia lo prese per le spalle e lo mise seduto sulla pila di cordami di fianco all’argano. «Stia fermo qui e non faccia niente.»
Il mare era calmo, i fari sotto la Sirena illuminavano di bianco le onde intorno alla barca.
«C’è niente sotto?»
«No,» disse Sabastiani porgendogli un binocolo. «Ho appena controllato.»
I fumaioli sporgevano inconfondibili poche decine di centimetri sopra il pelo dell’acqua.
«Li catturiamo, capitano?» gli occhi dell’irlandese luccicarono.
Chiarizia si passò le dita nella barba sfatta di tre giorni. Di solito i fumaioli erano sui fianchi di un monte sommerso, non su piane abissali. Comunque fosse, erano lì. E se c’erano i fumaioli, da qualche parte c’erano anche le bestie.
«Alzate i palloni,» ordinò.
Sebastiani e l’irlandese corsero sottocoperta. Chiarizia mosse l’argano e calò il gommone in acqua.
I sei palloni si alzarono a due a due. Appena i cavi d’acciaio si tesero, l’elio soffiò dentro la tela e la gonfiò. I palloni si toccarono e s’alzarono come respingenti inclinando la nave prima da un lato, poi verso poppa. Dagli ombrinali colò acqua e infine il mare si staccò dallo scafo, gocciolò giù per le fiancate e brillò illuminato dai fari.
«Basta così.»
La Rosi fermò l’elio, gli sfiatatoi fischiarono e la nave si assestò a circa quattro metri dalla superficie calma del mare.
Martinozzi si sporse dal parapetto a guardare le acque.
Chiariza lo afferrò per la collottola. «Che ho detto? Stia lì, fermo.»
Martinozzi si stropicciò la tela dei calzoni. «Ne catturerete? Di bonellie? Almeno la proboscide, se potessi analizzarla, come risolve l’ipobarometria, uncini prensili, ocelli…»
«Stia fermo qua. E speri solo di non incontrare quelle bestie.»
«Io ho bisogno di dati, capitano! Dobbiamo sapere chi sono, cosa vogliono, io…»
«La devo legare all’argano?»
«Mi faccia almeno andare a prendere i miei strumenti.»
«Tenga d’occhio l’acqua. Se vede delle pinne cacci un urlo. In cabina di comando c’è un sensore, se scatta l’allarme la Sirena è dentro una bolla di metano. Non tocchi niente per carità e lasci fare alla Rosi. Ha capito?»
Martinozzi annuì.
«Va bene, vada a prendere le sue cose.»
Martinozzi si precipitò. Chiarizia si calò con l’irlandese e Sebastiani nel gommone, dove erano pronti il sensore, due bombole, lo zaino con le mine, quattro arpioni e lo scaccio.
Nella luce bianca dei fari che sporgevano dalla scafo della Sirena l’irlandese e Sebastiani affondarono le pagaie nell’acqua nera. Non c’era vento, non c’erano correnti di superficie, i fuochi balenavano in verticale come spiritelli.
Chiarizia mordicchiò il bocchino. Le creature che fabbricavano i fumaioli erano avanzate, ma niente poteva far innalzare un tubo per tre chilometri senza che si spezzasse, specie con le correnti che dall’Atlantico spingevano come muri d’acqua. Eppure i fumaioli erano lì, a portata di voce l’uno dall’altro.
I fuochi ribollivano e borbottavano in un turbinio di lingue azzurre e verdi. L’aria seccava le labbra, aveva l’aroma surriscaldato dell’ozono e un retrogusto freddo, di alga, che faceva rizzare i peli sulle braccia. Era solo una suggestione, Chiarizia si impose di non pensare alle gelide profondità marine. Una tomba.
«Passa. Vai a quell’altro,» Chiarizia indicò il fumaiolo più grosso.
Controllò le mine, programmate per esplodere quindici minuti dopo il rilascio. Il fumaiolo doveva saltare alla base, di modo da spezzare pozzi sotterranei, fabbriche, depositi di bestie in decomposizione, qualsiasi cosa là sotto fosse la causa del metano. Se le mine fossero esplose vicine alla superficie il metano avrebbe continuato a salire in sciami di bollicine.
L’irlandese e Sabastiani indossarono le maschere. Chiarizia infilò i guanti. «Lo scaccio.»
Gli porsero l’asta di metallo con all’estremità il cappuccio conico. Mentre Sebastiani lo teneva per le spalle perché non cadesse, Chiarizia si sporse sull’acqua allungando lo scaccio sopra la bocca del fumaiolo. L’irlandese avvicinò il gommone di una spanna.
Il fuoco azzurro arrostiva le pupille, l’aria grattava come pelle di squalo. Il cappuccio sfiorò il fumaiolo e cadde in acqua, Chiarizia rialzò la sbarra facendo leva sulle braccia, strinse la presa sullo scaccio e sulla pipa, il sudore gli inzuppò i guanti e i capelli,.
«Appena più avanti,» borbottò sotto i denti. I tendini delle spalle gli bruciavano come punture di meduse. Appoggiò lo scaccio sulla bocca del fumaiolo. Chiuse gli occhi.
Il fuoco avvampò ai lati con una fiammata e si spense. Chiarizia attese qualche secondo poi tolse lo scaccio.
Dal fumaiolo usciva il sibilo del metano.
L’irlandese accostò il gommone al fumaiolo, Sebastiani con una forcella si assicurò che il gommone non toccasse il metallo, Chiarizia strappò la sicura e gettò la mina.
«Via.»
L’irlandese e Sebastiani girarono il gommone e remarono.
«Ma dov’è?» ansimò Chiarizia.
[…]
 

Fuochi fatui III

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