Fuochi fatui II – Hydropunk

Questa è la seconda parte del racconto Fuochi fatui. Prima o dopo lo impaginerò e ne farò un Epub, poi poi poi…

Fuochi fatui I

[…]
Chiarizia lasciò il timone all’irlandese che erano le due di notte. Si dirigevano verso il monte Magnaghi, dentro la piana abissale. Avrebbero navigato tutta la notte su acque a più di duemila metri di profondità, lontano dai monti sottomarini, nelle cui vicinanze si trovavano più spesso i fumaioli.
Chiarizia buttò la giacca sulla sedia, liberò le budella dalla stretta della cintura e frugò nel cassetto del comodino in cerca della riserva di tabacco. Anche un bicchiere di mirto gli avrebbe fatto bene.
Tirò dalla pipa, assaporò le volute di fumo socchiudendo gli occhi. La brandina scricchiolò sotto il suo peso e Chiarizia rimirò i trofei appesi al soffitto. Quindici fumaioli, dai sette i venti centimetri di diametro. Il più grande di tutti stava in cabina di comando al posto del pesce spada imbalsamato di quando aveva iniziato il mestiere. L’aveva buttato a mare, era un relitto da museo. Adesso Chiarizia dava la caccia ai fumaioli e incendiava le bolle di metano.
Fece ondeggiare il mirto nel bicchiere. Se n’era versato troppo poco. Si sfilò gli scarponi e si appoggiò il bicchiere sulla pancia. Il borbottio di fondo delle macchine lo faceva sentire al sicuro, nel ventre della sua barca, con l’aroma dolce del fumo che si diffondeva nella cabina.
Persino i cacaracci gli erano venuti in simpatia, meglio loro di quei mostri assassini che avevano rovinato la pesca, rovinato le coste, rovinato l’aria, rovinato tante città. Aveva conosciuto DeLuca a Venezia. Avevano rovinato tutto.
Il sonno gli intorpidì le mani, la pipa spenta gli penzolò dalla bocca, il ronzio delle macchine lo cullò nel dormiveglia.
«Capitano! Capitano!»
Chiarizia saltò in piedi. La sirena suonava. Raccolse la pipa da terra. «Arrivo, maledizione.»
Sul ponte l’irlandese e Sebastiani gli andarono incontro.
«Di dritta, capitano.»
A meno di duecento metri bruciavano lingue di fuoco blu. Sbucavano dritte dal mare come chiome di sirene.
«Macchine ferme,» urlò alla Rosi in cabina.
Martinozzi sbucò da sottocoperta in canottiera. «Cosa succede?»
«Fuochi fatui,» Chiarizia lo prese per le spalle e lo mise seduto sulla pila di cordami di fianco all’argano. «Stia fermo qui e non faccia niente.»
Il mare era calmo, i fari sotto la Sirena illuminavano di bianco le onde intorno alla barca.
«C’è niente sotto?»
«No,» disse Sabastiani porgendogli un binocolo. «Ho appena controllato.»
I fumaioli sporgevano inconfondibili poche decine di centimetri sopra il pelo dell’acqua.
«Li catturiamo, capitano?» gli occhi dell’irlandese luccicarono.
Chiarizia si passò le dita nella barba sfatta di tre giorni. Di solito i fumaioli erano sui fianchi di un monte sommerso, non su piane abissali. Comunque fosse, erano lì. E se c’erano i fumaioli, da qualche parte c’erano anche le bestie.
«Alzate i palloni,» ordinò.
Sebastiani e l’irlandese corsero sottocoperta. Chiarizia mosse l’argano e calò il gommone in acqua.
I sei palloni si alzarono a due a due. Appena i cavi d’acciaio si tesero, l’elio soffiò dentro la tela e la gonfiò. I palloni si toccarono e s’alzarono come respingenti inclinando la nave prima da un lato, poi verso poppa. Dagli ombrinali colò acqua e infine il mare si staccò dallo scafo, gocciolò giù per le fiancate e brillò illuminato dai fari.
«Basta così.»
La Rosi fermò l’elio, gli sfiatatoi fischiarono e la nave si assestò a circa quattro metri dalla superficie calma del mare.
Martinozzi si sporse dal parapetto a guardare le acque.
Chiariza lo afferrò per la collottola. «Che ho detto? Stia lì, fermo.»
Martinozzi si stropicciò la tela dei calzoni. «Ne catturerete? Di bonellie? Almeno la proboscide, se potessi analizzarla, come risolve l’ipobarometria, uncini prensili, ocelli…»
«Stia fermo qua. E speri solo di non incontrare quelle bestie.»
«Io ho bisogno di dati, capitano! Dobbiamo sapere chi sono, cosa vogliono, io…»
«La devo legare all’argano?»
«Mi faccia almeno andare a prendere i miei strumenti.»
«Tenga d’occhio l’acqua. Se vede delle pinne cacci un urlo. In cabina di comando c’è un sensore, se scatta l’allarme la Sirena è dentro una bolla di metano. Non tocchi niente per carità e lasci fare alla Rosi. Ha capito?»
Martinozzi annuì.
«Va bene, vada a prendere le sue cose.»
Martinozzi si precipitò. Chiarizia si calò con l’irlandese e Sebastiani nel gommone, dove erano pronti il sensore, due bombole, lo zaino con le mine, quattro arpioni e lo scaccio.
Nella luce bianca dei fari che sporgevano dalla scafo della Sirena l’irlandese e Sebastiani affondarono le pagaie nell’acqua nera. Non c’era vento, non c’erano correnti di superficie, i fuochi balenavano in verticale come spiritelli.
Chiarizia mordicchiò il bocchino. Le creature che fabbricavano i fumaioli erano avanzate, ma niente poteva far innalzare un tubo per tre chilometri senza che si spezzasse, specie con le correnti che dall’Atlantico spingevano come muri d’acqua. Eppure i fumaioli erano lì, a portata di voce l’uno dall’altro.
I fuochi ribollivano e borbottavano in un turbinio di lingue azzurre e verdi. L’aria seccava le labbra, aveva l’aroma surriscaldato dell’ozono e un retrogusto freddo, di alga, che faceva rizzare i peli sulle braccia. Era solo una suggestione, Chiarizia si impose di non pensare alle gelide profondità marine. Una tomba.
«Passa. Vai a quell’altro,» Chiarizia indicò il fumaiolo più grosso.
Controllò le mine, programmate per esplodere quindici minuti dopo il rilascio. Il fumaiolo doveva saltare alla base, di modo da spezzare pozzi sotterranei, fabbriche, depositi di bestie in decomposizione, qualsiasi cosa là sotto fosse la causa del metano. Se le mine fossero esplose vicine alla superficie il metano avrebbe continuato a salire in sciami di bollicine.
L’irlandese e Sabastiani indossarono le maschere. Chiarizia infilò i guanti. «Lo scaccio.»
Gli porsero l’asta di metallo con all’estremità il cappuccio conico. Mentre Sebastiani lo teneva per le spalle perché non cadesse, Chiarizia si sporse sull’acqua allungando lo scaccio sopra la bocca del fumaiolo. L’irlandese avvicinò il gommone di una spanna.
Il fuoco azzurro arrostiva le pupille, l’aria grattava come pelle di squalo. Il cappuccio sfiorò il fumaiolo e cadde in acqua, Chiarizia rialzò la sbarra facendo leva sulle braccia, strinse la presa sullo scaccio e sulla pipa, il sudore gli inzuppò i guanti e i capelli,.
«Appena più avanti,» borbottò sotto i denti. I tendini delle spalle gli bruciavano come punture di meduse. Appoggiò lo scaccio sulla bocca del fumaiolo. Chiuse gli occhi.
Il fuoco avvampò ai lati con una fiammata e si spense. Chiarizia attese qualche secondo poi tolse lo scaccio.
Dal fumaiolo usciva il sibilo del metano.
L’irlandese accostò il gommone al fumaiolo, Sebastiani con una forcella si assicurò che il gommone non toccasse il metallo, Chiarizia strappò la sicura e gettò la mina.
«Via.»
L’irlandese e Sebastiani girarono il gommone e remarono.
«Ma dov’è?» ansimò Chiarizia.
[…]
 

Fuochi fatui III

Come sempre, i commenti sono ben accetti.

Fuochi fatui – Hydropunk

Visto che il concorso Hydropunk ha chiuso la fase di raccolta dei racconti, mi prendo la libertà di pubblicare la prima parte del mio, poco meno di un quarto della lunghezza. E’ la quarta revisione, che ho deciso arbitrariamente essere l’ultima, ma rileggendo ora vedo che c’è qualcosina da mettere a posto. C’è sempre qualcosina da mettere a posto. Il titolo è Fuochi fatui.

Il capitano Chiarizia liberò la cima dalla bitta e la lanciò al marinaio sul ponte della dragamine. Sebastiani, al timone, allontanò la Sirena dalla dragamine e dalla traiettoria delle eliche.
Il marinaio sventolò il berretto, le eliche spazzarono le onde. I palloni aerostatici tiravano i cavi d’acciaio, la dragamine virò in equilibrio cinque metri sopra il pelo dell’acqua e una nuvola di spilli sbuffò dal mare. La nave virò verso Capo Carbonara seguita da un arcobaleno d’acqua vaporizzata.
Chiarizia si asciugò la faccia con la manica della camicia.
Centellinò il poco tabacco rimastogli e si accese la pipa. Il nuovo arrivato, che la dragamine aveva pescato dritto dritto dalla terraferma, salì a prua con lui.
Martinozzi sorrise. Scarpe di tela, calzini bianchi, mani bianche, vecchio orologio d’oro e gel nei capelli. Chiarizia si gustò l’aroma sulla lingua.
«Queste sono le boe?» Martinozzi indicò la tela ripiegata del pallone aerostatico che dalla cala di prua usciva sul ponte di comando. «Ci troveremo a usarle secondo lei?»
«Se avvistassimo fuochi fatui.»
Martinozzi guardò il cielo che imbruniva. Masticava qualcosa.
«Tabacco?» chiese Chiarizia.
«Cosa? No, gomma. Per il mal di mare.»
«Oh.»
«Non avevo mai visto un’intera nave portata dalle boe. Anche la Sirena può sorvolare il mare?»
«Quella là è una nave sperimentale e la Sirena è solo un vecchio peschereccio,» Chiarizia accarezzò la balaustra, il fianco dipinto di bianco e di blu. «Se avremo sentore di quelle bestiacce, un fuoco fatuo, una bolla di metano, se venissero a grattarci la chiglia, gonfieremo i palloni con l’elio e ci solleveremo, ma saremo immobili. La vede quella cima? Se s’impiglia, il pallone non sale, la nave s’inclina da una parte e qualcuno finisce in acqua. E lo vede il gancio? Se i miei marinai non arrivano in tempo a sganciarlo i palloni non si alzano, non si gonfiano e noi rimaniamo coi piedi al bagnato.»
Martinozzi aprì il collo della camicia. «Non darò fastidio, capitano.»
«Si è già sistemato sottocoperta? Sì? Allora si cambi le scarpe. Se qualcosa le va su un piede e ne fa una sogliola mi aspetto che lei continui a camminare.»
«Ma la mia attrezzatura, il microscopio, i ferri?»
«L’irlandese e la Rosi hanno sistemato tutte le sue faccende nella stiva.»
Chiarizia fece segno di seguirlo.
 
La vecchia cella frigorifera era stata smantellata. Le pareti d’acciaio nudo vibravano a contatto con la sala macchine. La Rosi, in piedi nell’angolo opposto al portello, sollevò il disco Secchi facendolo oscillare.
«L’hai sistemato quell’aggeggio?»
«Sì, capitano. Si era solo slegato, nessun problema.»
«Niente?»
Chino sul visore, Sebastiani ruotò il periscopio sott’acqua. «Blu, blu, blu e blu.»
Sul tavolo inchiodato al pavimento affianco al periscopio, la Rosi aveva sistemato l’attrezzatura di Martinozzi.
Chiarizia aprì una custodia di pelle nera e osservò i bisturi e le pinze aspirando le ultime boccate dalla pipa. La roba del biologo sapeva di disinfettante e di sapone per i piatti. Aveva portato a bordo fogli plastificati, boccettine e alambicchi, cannucce graduate, una collezione di contenitori in plastica con etichette tra le più ingarbugliate che Chiarizia concepisse, il microscopio con quattro ingrandimenti, vetrini, dei libri, un taccuino.
Con la coda dell’occhio Chiarizia vide che Sebastiani invece di controllare il periscopio se ne stava a cavalcioni dello sgabello a fissare la Rosi con una faccia da tonno. La cima del disco Secchi si era tutta impigliata e annodata.
«Ha mai sezionato una di quelle bestiacce?»
«Le ho studiate,» rispose Martinozzi. «Non sono facili da catturare. E poi non sono bestiacce.»
«Ah no?»
«Sono intelligenti. I resti dei fumaioli ne sono una prova inconfutabile.»
«Intelligenti, eh?»
Martinozzi sistemò i piedini sotto il microscopio. «Non crede che siano intelligenti?»
Chiarizia tirò dalla pipa. «Sebastiani!»
«Sì? Sì, capitano.»
«Il periscopio!»
«Mi scusi, capitano.»
Chiarizia sedette sul tavolo e sui taccuini di Martinozzi. «In vista delle coste sarde, a cinque miglia dalla scarpata, l’equipaggio di un ex peschereccio simile alla Sirena sentì un rumore di metallo venire dalla carena. Poteva essere un galleggiante alla deriva, un tronco, un pezzo di qualcosa. Il fondale sarà stato di seicento metri. Fuori bordo non c’era niente di niente. Si misero al periscopio e videro delle ombre, come delle cime arrotolate al timone. Poi videro una coda. Una pinna verde, e sentirono il rumore di un trapano che forava lo scafo. In cinque minuti la sentina era allagata, il fondo aperto come una scatola di sardine. In dieci minuti la nave affondò. Io ero vicino, raccolsi un marinaio. Non trovai gli altri quattro, né il capitano DeLuca. Erano andati giù. Il marinaio disse che le pinne lo avevano afferrato per le gambe,» Chiarizia picchiettò il fondo della pipa buttando per terra cenere e fondiglio ancora tiepidi. «Conoscevo bene il capitano DeLuca. Mi regalò questa pipa, l’ultimo regalo che mi fece, un giorno prima di scomparire là sotto. Se penso che quelle bestie sono intelligenti? Oh, sì. Sono intelligenti. Chissà cosa nascondono, che piani hanno.»
«Bisogna trattarle con rispetto.»
«Sebastiani! Il periscopio! Rispetto? Se ne pesco una gli stacco pinne e squame una a una.»
«Non hanno né pinne, né squame,» disse Martinozzi. «Sono bonellie.»
Chiarizia aveva bisogno di un’altra fumata. «Vada a riposarsi, sarà stanco,» disse. «Qui dobbiamo fare i turni al periscopio, lei farà il turno del mattino. E si cambi le scarpe.»
 […]
 
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I commenti sono ben accetti.

Santi e sifilide

Che cos’è il guaiaco?

Quando leggo in inglese non mi è raro trovare una parola che non conosco. In italiano è molto, molto più difficile, ma mi succede di inciampare in robe strane. Come questo guaiaco.

L’Accademia della Crusca dice che il numero più alto di parole italiane raccolte da un dizionario è di circa 250000 lemmi, la stragrande maggioranza dei quali sono parole tecniche, specialistiche o antiquate. Sono stimante in circa 7000 le parole usate nel linguaggio comune, alto o basso che sia. Suppongo di conoscere già gran parte di quelle 7000 parole, e infatti ogni volta che mi segno una parola che non conosco finisce invariabilmente per essere una parola tecnica, tipo il nome di un copricapo usato dalle tribù nomadi del Tagikistan, o il nome di un mestolo a forma di foglia di fico usato nel IV secolo in Umbria, o il nome di una malattia rara che hanno in quattro in tutto il globo, o il nome di una proteina coinvolta nella coagulazione del sangue di lumaca.

Beh, allora, che è sto guaiaco dal sapore sud americano?

Trattasi di… rullo di tamburi… una pianta! (Non c’è da stupirsi che nella mia lista di parole sconosciute siano nascoste dozzine di strane creature, visto che i libri di saggistica che leggo di più sono, a parte i manuali di scrittura, di ambito biologico)

Guaiaco è il nome del legno e della pianta del Guaiacum officinale, una delle specie del genere Guaiacum. Eccola.

Ma che bella pianta il guaiaco

Vive? In centro America. Il legno è fra i più duri che esistono, ma la cosa curiosa è che è considerata una pianta curativa. Con molta fantasia è nota da questa parte dell’oceano come Lignum vitae  o, con una dose di immaginazione da far impallidire Alice, come legno santo o legno benedetto.

Se incisa la corteccia trasuda una resina ricca di molti principi attivi dai nomi tecnicissimi di cui ho un’idea vaghissima del significato, tipo guaiaguttina e guaiacolo.  Fatto sta che pare essere una specie di pianta magica visto che sarebbe: antinfiammatoria, antiossidante, antireumatica, antisettica, diaforetica, diuretica, lassativa, antiradicali liberi. E dovrebbe curare tra gli altri: artrite reumatoide, gotta, reumatismi, disturbi alla bocca, infiammazioni della pelle, disturbi di ritenzione, reumatismi, intossicazioni, stipsi, funziona contro la cellulite, il linfatismo e la sifilide!

Qualcuno ci ha ricamato sopra un po’ troppo.

…e che bei fiorellini

Come molte piante (dal rosmarino alla canapa) il guaiaco ha davvero tutta una serie di proprietà perchè la sua resina, piuttosto che il suo legno, sono una specie di minestrone di molecole le più diverse. Quello che i patiti del “naturale” paiono proprio non capire è che questo cocktail non è lì per caso. La pianta non si disturba a produrre tutta quella roba così, perchè è fantasy fico. Tutti quei principi attivi sono lì perchè servono alla pianta, per esempio servono per ammazzare i parassiti. Sono come insetticidi che la pianta si autoproduce. A dosi basse e controllate quelli che per i parassiti delle piante sono veleni potrebbero rivelarsi medicamenti per noi.

A volte invece le proprietà curative di una pianta sono tutte fantasie. All’inizio del ‘500 il guaiaco fu importato in Europa per la cura della sifilide. Chiaramente il guaiaco non fa niente alla sifilide, ma venne usato perchè fa sudare e allora si credeva che sudando il malato espellesse i suoi mali.

Peccato che non mi ricordo più dove l’avevo letta questa parola. Forse nel Racconto dell’antenato di Dawkins. Un libro tomo che consiglio vivamente a tutti gli interessati alla storia della vita. Anche il guaiaco è un nostro lontano, lontano, lontano cugino. Viva il guaiaco.

Lista delle scene – Concorso Hydropunk

Ordunque, avevo parlato del concorso Hydropunk qui e avevo detto che forse avrei partecipato. Beh, l’altra settimana, alleluja, ho finito di buttare giù la prima stesura, e ieri, altro alleluja, ho finito la prima revisione.

Lo stile era un crimine contro l’umanità. C’erano cose che mi erano venute in mente a metà e dovevo tornare indietro ad aggiustarle. E… era di circa 1000 parole troppo lungo.

Sforare di mille parole su un massimo consentito di 5000 non è male. Per fortuna nella prima stesura c’è sempre una marea di fuffa e di ripetizioni.

Ho però fatto una cosa che non avevo mai provato, ho listato le scene del racconto per visualizzarle meglio. Essendo “solo” 11 non è un gran problema, ma visto che voglio applicare lo stesso sistema anche a un lavoro che di scene ne ha abbondantemente oltre il centinaio, ho fatto qui la prova.

Ecco la lista delle scene del racconto.

Numero Titolo Lunghezza Tensione Tipo
1 Dragamine 560 4 Descrizione-Dialogo
2 La Margherita 509 6 Dialogo
3 Cabina del capitano 309 5 Descrizione-F. interiore
4 I fuochi fatui 1089 8 Azione-Descrizione
5 La Sirena 570 7 Dialogo-Azione
6 La bonellia 534 6 Dialogo-F.interiore
7 L’attacco 844 8 Azione
8 Annegamento 313 9 Azione
9 Lo scafandro 375 7 Descrizione-Azione
10 Il mondo delle bonellie 601 8 Descrizione
11 DeLuca 252 10 Descrizione-Azione

Numero e Titolo delle scene non hanno importanza tecnica, servono solo per contarle e identificarle.

Il numero di parole permette di vedere a occhio i rapporti di lunghezza. Essendo questi numeri relativi alla prima stesura è naturale che siano un po’ traballini. La prima stesura è disordinata e lo è in maniera disomogenea. Revisionando, alcune scene si sono sensibilmente accorciate, altre sono scese solo di una manciata di parole. In ogni caso il rapporto tende a rimanere simile. “I fuochi fatui”, la scena più lunga, è calata da 1089 parole a 843, ma resta la scena più lunga. La seconda scena “La Margherita” è passata da 509 a 497, ma in realtà è calata anche lei di almeno un centinaio di parole, non si nota solo perchè nella revisione ho aggiunto qualcosa che prima non c’era. Mi ha fatto impressione l’ultima scena, che nonostante sia la scena con maggiore tensione (è quel che spero io perlomeno) non solo era in partenza la più breve, ma è calata ancora da 252 a 197. Per dire, la scena più importante era già la più breve e ancora non aveva bisogno di tutte quelle parole. Anzi, con meno parole funziona meglio. Ciò che conta è il contenuto e se un numero inferiore di parole trasmettono lo stesso contenuto significa che la scrittura è diventata più densa, più forte. Troppe parole sono come l’acqua nel vino.

Altra cosa interessante da fare è dare un “punteggio” da 0 a 10 alle scene in base alla loro tensione. La tensione all’interno delle scene non è uniforme. Nella stragrande maggioranza dei casi tende ad avere dei picchi intermedi e a raggiungere l’apice alla fine. Il punteggio è assegnato considerando la tensione media, ma resta una valutazione soggettiva. Diagrammino.

In ascisse le scene, in ordinate la tensione. L’andamento della tensione dall’inizio alla fine della narrazione è simile all’andamento interno di una qualunque scena. Non è uniforme, parte a un livello più o meno alto, ha dei picchi intermedi e raggiunge il suo massimo alla fine.

La tensione delle scene è una conseguenza del ritmo della narrazione, cioè della velocità con cui i fatti sono narrati. Non è detto che a un ritmo più lento corrisponda una tensione minore, si pensi alla “quiete prima della tempesta”, la situazione in cui non succede niente, ma sta per succedere qualcosa. E’ invece sempre vero che quello che si percepisce leggendo non è tanto la velocità quanto l’accelerazione. Se pensate di creare più tensione andando veloci sbagliate, la tensione è frutto soprattutto delle accelerazioni. Questo significa che non si può andare sempre alla stessa velocità, rapida o lenta che sia, e non si può sempre accelerare, o ad un certo punto si arriva a un ritmo insostenibile per chi scrive e nevrotico per chi legge. Così come bisogna accelerare, così bisogna frenare. Da qui i picchi intermedi.

Immaginate che il vostro gatto faccia cadere un piatto nel bel mezzo della notte e che quello si sfracelli a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state sognando pacifici, accoccolati nel vostro nido di coperte. Farete un salto in aria, vi verrà la tachicardia, stramaledetto gatto! E se invece qualcuno facesse cadere un piatto nel bel mezzo di una discoteca e quello si sfracellasse a terra facendo un chiasso infernale mentre voi state urlando nell’orecchio del vostro migliore amico che quella sera volete sbronzarvi fin nelle scarpe perchè la ragazza vi ha mollato, a malapena gli concedereste uno sguardo al piatto. Ma è lo stesso piatto che cade allo stesso modo. Più del rumore assoluto conta il rumore relativo. Certo che se fate esplodere una bomba H…

L’ultima colonna della tabella descrive la scena in termini tecnici. Non dice “qui muore il protagonista”, dice che quella scena è composta in prevalenza da dialogo piuttosto che da azione e quindi dà un’idea della tipologia di scena. Le scene d’azione sono più spesso cariche di tensione, ma non è detto che una scena prevalentemente descrittiva non sia altrettanto tesa o che non lo sia una scena piena di dialogo.

Conto finale della parole alla fine della revisione: 5000 tonde tonde. Lascerò passare qualche giorno e farò un’altra revisione, confido che le parole resteranno suppergiù quelle.

Qui si può leggere il racconto.

Scuoiare l’immagine – esercizi di immaginazione

Dopo aver letto l’articolo su Tapirullanza sono andata a spulciare il blog sugli esercizi di dilatazione di McClark.

Personalmente non ho mai preso ispirazione da dipinti e disegni, anche se mi piace dipingere e adoro l’arte pittorica, specialmente se surreale o comunque a forte gradiente immaginativo (per dire, mi piace Dalì, molto meno Giotto). Per ora ciò da cui ho tratto maggiore ispirazione sono i sogni, ma d’altronde che importa da dove si pescano le idee? Le idee sono a buon mercato. Più difficile è tenere l’immaginazione elastica e allenata e questo è il proposito degli esercizi di dilatazione. Prendere un’immagine e aprirla dal di dentro per scovare cosa nasconde, lo chiamerei “scuoiare l’immagine”.

McClark è un illustratore, molto bravo tra l’altro, e propone ogni settimana degli esercizi di dilatazione sui propri lavori aggiungendo a ciascuno un breve paragrafo scritto per dare spunto alla narrazione. La cosa mi sembra così intelligente e le illustrazioni sono così fighe che proverò anch’io a fare degli esercizi di dilatazione. Dei racconti, non molto lunghi, su un 5000 parole come massimo, ciascuno a partire da un’immagine.

Visto che di immagini suggesstive è pieno il mondo, mi limiterò a usare le illustrazioni di McClark. E non userò le necessariamente le prossime che pubblicherà in ordine, ma sceglierò quelle che mi piacciono di più. Se un’immagine non fa scaturire nessuna sensazione in chi la guarda, il proposito degli esercizi di dilatazione perde di senso.

Il punto fondamentale sarà quello di allenare e liberare l’immaginazione, per cui per me l’esercizio sarà di rendere i racconti il più immaginifici possibile nel limite della coerenza interna. Non terrò conto delle scritte di McClark che accompagnano le immagini, userò le immagini e le immagini soltanto. Ho già adocchiato alcune illustrazioni su cui lavorare. Quella di lunedì scorso non è male.

L’unico dubbio è che è un po’ troppo precisa. Confrontata ad altre è un’immagine “facile” da interpretare. C’è un gigante che pare essersi appena risvegliato e una città in rovina. Visto che perde sangue potrebbe essere che l’hanno attaccato e che la distruzione della città non sia che un effetto collaterale. Se l’interpretazione è immediata vuol dire che l’uso dell’immaginazione è limitato.

Questa mi piace particolarmente, bellissima composizione, anche se è “facile”. Si poteva persino usare per il concorso di Hydropunk!

Guardate invece questa.

Questa non racconta alcuna storia, è suggestiva, ma non suggerisce molto, è già complicato capire che cosa è! Se si vuole costruire un racconto su questa bisogna per forza mettere in moto l’immaginazione o non se ne cava un ragno dal buco.

Questa mi piace da matti.

Ha un che di poetico, è malinconica. Lasciate stare lo scheletro, il teschio, bla, bla, questi sono oggetti. Io dico l’impressione. E’… triste e dolce insieme. Ecco, è questo che serve per scuoiare l’immagine, un’impressione. Qui c’è anche il contrasto tra la natura dell’impressione e quella del soggetto, il che non guasta. Quest’immagine penso di usarla.

Questa è magnifica, una delle mie preferite, e praticamente perfetta per l’esercizio.

Qui non c’è niente da capire, a parte che fa freddo! C’è solo da inventarci sopra.

Penso che la prima sarà invece questa qui. Stupenda, dovrei mettere una gigantografia in camera.

E’ l’esercizio di dilatazione numero 8.