Avengers – presentare un personaggio

In questi giorni ho riguardato The Avengers. Il film mi aveva piacevolmente colpito, di solito gli action holliwoodiani-spacchiamo-il-culo-al-cattivone mi annoiano a morte. Begli effetti, per carità, al cine fanno la loro figura, gran begli omaccioni, un po’ di muscoli qua e là non fanno mai male, ma in quanto a sceneggiatura, uccidetemi adesso. Quando oltre ai personaggi piatti e ai dialoghi da pezzenti arrivano i facili moralismi e le banalità sentimentali, parte il rigurgito del panettone dell’anno prima.

Non che non abbia qualche difettuccio, ma merita il successo che ha avuto. Tanto di cappello a Joss Whedon che è riuscito a mettere insieme un film con una struttura inevitabilmente difficile, dovendo dividere i tempi per 7/8 sottotrame (la maggior parte dei film ne ha 2 o 3, al massimo 5).

Io, e non sono l’unica, ho apprezzato particolarmente il nostro amico Bruce Banner. Iron Man già lo conoscevo, grande Downey Jr., Thor tutte le volte che lo vedo mi vengono in mente quei dieci secondi di silenzio assoluto quando se ne andava in giro a torso nudo, tantaroba, mamma mia quantaroba, Cap America non è tra i miei personaggi preferiti, non ho neanche visto il suo solo film, la Vedova Nera è nettamente migliorata dalla sua comparsa in Iron Man 2, Occhio di Falco, tantaroba anche lui, l’unico che rappresentava una novità era Hulk.

Ora, io ho un debole per i personaggi che devono lottare contro un demone interiore, che nascondono un lato non proprio piacevole e, soprattutto, che sono ambigui e contraddottori. Di suo Hulk ha le carte in regola per piacermi, ma nessuno dei due film in cui è protagonista mi aveva entusiasmato. Di certo non è ben sfruttato il lato contraddittorio del personaggio, hanno puntato tutto sul dualismo uomo/mostro senza capire che il vero personaggio è Banner, è dentro Banner che bisogna costruire la contraddizione, Hulk è un derivato. Quello del 2003 con Bana me lo ricordo come un abbiocco tremendo. Temo il film abbia vari problemi, ma uno sicuramente è il protagonista stesso, troppo passivo per i miei gusti (sì, va bene, diventa grosso e verde, e poi?). Il secondo film, quello con Edward Norton, già è meglio. Banner è troppo lineare, troppo semplice, troppo staccato da Hulk, manca quel non so che, però almeno fa qualcosa, non viene solo sbatacchiato qua e là. Vedendo The Avengers, alla prima scena in cui compare Banner, mi son detta “taci che ci siamo”.

Nel film tutti i personaggi hanno il loro spazio e la loro piccola sottotrama, c’è però una particolare attenzione alla costruzione e alla presentazione di Banner, per l’ovvio motivo che, al contrario degli altri personaggi, il pubblico non l’ha mai visto prima. Mi immagino Joss Whedon e Mark Ruffalo chiusi in uno stanzino delle scope a confabulare “qui non dobbiamo fare minchiate”. In realtà il discorso che sto per fare si può fare per tutti i personaggi, ma visto che Banner è quello che ho preferito, ho deciso parlerò di lui, ecco.

Oppesse…

Il film si apre con la sequenza (una delle scene meno ispirate del film a mio parere) in cui come di consueto si presenta il problema, vale a dire Loki, la sua banda di assatanati e il tesseract; e si pone la domanda: riusciranno nostri eroi-non eroi, i vendicatori, ‘sta banda di randagi a fermarlo e salvare la Terra? Il resto del primo atto è per lo più dedicato a raccogliere e presentare i vendicatori. Nel secondo atto i nostri eroi imparano a lavorare insieme (grazie Coulson, buaahh nooo Coulson!), nel terzo… beh, nel terzo SMASH!

Com’è Banner/Hulk? E’ intelligente (anche come Hulk), sa una fraccata di cose, è pieno di contraddizioni, è gentile e mansueto, quasi timido (i timidi capiscono quanto bene sia azzeccata la dicotomia timidezza-rabbia) e allo stesso tempo è sicuro di sè, non ama la sua condizione ma ha imparato a farci i conti, tant’è che ha un che di triste e insieme è ironico, e autoironico. Cos’altro? Ah, Banner sarà gentile e mite ma è anche molto, molto pericoloso.

Bene, come si fa a dire tutto questo allo spettatore? Mostrandoglielo, naturalmente. Attraverso le azioni, gli atteggiamenti e il dialogo, adesso lo vedremo, ma c’è un modo di mostrare un personaggio sottile e molto intelligente che neppure necessita di avere il personaggio in scena: il modo in cui gli altri personaggi si comportano nei suoi confronti.

La seconda scena dopo la sequenza iniziale è quella dell’interrogatorio dell’Agente Romanoff aka Vedova Nera. Questa scena serve a presentare prima di tutto il personaggio della Vedova Nera. E funziona. L’Agente Romanoff sembrerebbe in una pessima situazione, lì a subire un interrogatorio, e invece è lei che sta interrogando gli aguzzini! Coulson le telefona e lei vuole finire il lavoro, lui le nomina Occhioni si Falco e lei molla subito tutto (sottinteso, c’è qualcosa sotto tra i due), in quattro e quattr’otto si libera di quei poveri cretini ed è pronta. L’Agente Romanoff è sveglia, è esperta, è abile, non si fa neppure troppi problemi. Insomma, alla fine di questa scena non c’è alcun dubbio, è una tipa tosta. Quando Coulson per telefono le dice di andare a parlare con il “big guy” lei pensa che intenda dire Iron Man e ci scherza sopra, invece no, Coulson intendeva il “big guy”, quell’altro. E l’Agente Romanoff come reagisce? Non è molto contenta. Bozhe moi in russo significa “mio dio”. Banner non è stato in scena neppure un secondo e già abbiamo indicazioni su di lui. Se la Vedova Nera è preoccupata di incontrarlo, significa che è imprevedibile e potenzialmente pericoloso. Il pubblico percepisce il pericolo ancora prima di vederlo e il film continua a construire e ampliare questa percezione sfruttandola per creare tensione da scaricare poi nel momento in cui davvero Hulk si scatena, evento che per questo e altri ottimi motivi avviene solo dopo la metà del film.

Scena successiva, Calcutta. Nelle prime immagini vediamo Banner in casa di gente malata che si lava le mani, uno stetoscopio in tasca, la bambina che lo prega di seguirla. A cosa serve questa breve scena? A far sapere al pubblico cosa ci fa Banner a Calcutta e perchè. Fa il medico. E non lo fa da ieri visto che parla un po’ la lingua. E non lo fa per arricchirsi, visto che la casa in cui lo vediamo è misera e visto che segue una bambinetta in una baraccopoli invece di un grassone in una limousine. Sappiamo anche che Banner è di animo gentile, infatti anche se ha da fare ed è ormai notte si lascia pregare. Prima di arrivare alla casupola una camionetta passa davanti a Banner e alla bambina. Banner che fa? Ferma la bambina, un gesto che pare di protezione e convince sul fatto che Banner è attento a chi è intorno a lui, e poi si volta, nasconde il viso, segno che non ha nessunissima intenzione di farsi notare e che sa benissimo che in giro c’è gente che lo cerca. In pochi secondi abbiamo il quadro del personaggio, tutto attraverso le azioni e con ben poco spreco di parole.

Riporto le battute della scena in inglese, tanto è facile.

La scena comincia con la bambina che s’infila per la finestra e con Banner che resta lì con un pugno di mosche in mano.

“You should have got paid up front. Banner”

Questa battuta di Banner serve a due scopi. Uno è di mettere bene in chiaro chi è il personaggio. C’è sempre qualche spettatore ritardato, o qualcuno che conosce molto poco il MondoMarvel. Banner dice “sono io Banner!” La seconda funzione, più interessante, è di mostrare una reazione. Questo vale per ogni reazione e ogni battuta di un personaggio. Personaggi diversi avrebbero reagito diversamente alla stessa situazione. Qualcuno avrebbe rincorso la bambina, qualcuno sarebbe mandato un improperio, qualcuno si sarebbe incazzato. Banner manda un sospiro indispettito e dà un primo assaggio della sua autoironia “mi son fatto gabbare con tutte le scarpe”.

“You know, for a man that is supposed to be avoiding stress you picked a hell of a place to settle.”

L’Agente Romanoff esce dall’ombra e mette subito in chiaro una cosa “io so chi sei” da cui deriva l’ovvio “non sono qui per nulla”. Naturalmente non è stata mandata l’Agente Romanoff a caso, è brava a manipolare (ce lo ha appena mostrato nella scena dell’interrogatorio) e non ha un aspetto aggressivo. E’ nel suo interesse turbare Banner il meno possibile e infatti dice quello che deve dire scegliendo parole gentili, parlando con un tono rilassato, vestendo un abito semplice che mostri che non porta armi. Ma la sostanza non sfugge a Banner, che la studia per un istante con l’espressione di chi sa di essere in trappola, e lo dirà esplicitamente più avanti.

“Avoiding stress isn’t the secret”

Qui Banner sta da una parte mettendo giù le carte, non nega, non dice “non so di che sta parlando”, dice “va bene, cosa vuoi?”, e lo dice rispondendo con un tono tranquillo al tono tranquillo di lei. E’ una risposta accondiscendente da una parte, guardinga dall’altra. Il che dà un indizio caratteriale, Banner è un tipo mite, ma non si fida. Contemporaneamente Banner sta, forse involontariamente, facendo un’affermazione “sai chi sono, ma non mi conosci così bene”.

Altra funzione di questa battuta è quella di creare un rimando all’interno del film. Inizia qui, viene ripreso a metà film quando Banner dice, sempre alla Romanoff, “vuole sapere qual’è il mio segreto? Come faccio a mantenere la calma?” e trova il suo apice in uno dei momenti più fighi del film “è questo il mio segreto, Cap. Io sono sempre arrabbiato” SMASH!

“Than what is it? Yoga?”

Notare come lei non vada subito al punto. Gli lascia il tempo di adattarsi alla situazione e di guidare la conversazione come preferisce. Questa battuta significa “io non farò nulla, prendi in mano tu la situazione”.

“You brought me to the edge of the city, smart. I assume the whole place is surrounded.”

La reazione di Banner prova che l’Agente Romanoff si sta comportando nel modo giusto. Anche se lei non ha fatto niente per essere considerata una minaccia, a parte ingannarlo e saltare fuori dal nulla, Banner si tormenta le mani, sa di essere in una trappola, si guarda in giro, e indietreggia. Un atteggiamento di chi è a disagio, e la rabbia è un caso estremo di disagio. Da notare la posizione dei due personaggi, Banner è spalle al muro, l’Agente Romanoff è in mezzo alla stanza a una certa distanza.

Banner qui sta inquadrando la situazione, mostrando sia al pubblico che all’Agente Romanoff di non essere uno sprovveduto. Si potrebbe pensare che anni passati a cercare di non farsi mettere in gabbia lo abbiano allenato a non fidarsi.

“Just you and me.”

Manipolatrice. Mente spudoratamente. Certo che se vuoi tenere Banner tranquillo l’ultima cosa che vuoi è dirgli che c’è un plotone armato fino ai denti fuori dalla finestra. Non so se sia stato fatto apposta, qui interpreto liberamente, ma è in questa battuta che la Romanoff si toglie lo scialle. Come a dire “vedi? non ho nulla da nascondere”.

“And your actress buddy? Is she a spy too? Do they start that young?”

Notare come è ancora lui a condurre la conversazione. Banner non è affatto convinto, ma lascia cadere la faccenda che il posto è circondato. Qui il movimento del personaggio è tutto interno, Banner sta pensando, parla della ragazzina per associazione con chi altri lo sta aspettando fuori, e di fatto prende tempo. Quello che vuole dire lo dirà fra un paio di battute quando la Romanoff continuerà a non fare nulla.

“I did.”

La Vedova Nera concede qui qualcosa di sè, mostrando a Banner quasi un punto debole. E’ un ottimo sistema per cercare un contatto con chi non si fida di te. Intanto il pubblico impara qualcosa anche su di lei.

“Who are you?”

“Natasha Romanoff”

Naturalmente gli dice il suo nome. In fondo lei è un’amica. Lo è davvero probabilmente, o perlomeno lo sarà, ma questo Banner non lo sa.

“Are you here to kill me, ms Romanoff? Because that’s not going to work out, for everyone.”

Ecco quello a cui Banner girava intorno. E’ interessante venire a sapere che quando Banner incontra qualcuno che conosce la sua identità, anche se è una donna pulita, apparentemente disarmata e apparentemente sola, la prima cosa che pensa è che lo voglia uccidere. Allo stesso tempo si nota la confidenza che Banner ha con se stesso. Sa quali saranno le conseguenze se lei lo attaccherà e lo dice esplicitamente, non come una minaccia, ma come un’informazione, “non funzionerà per nessuno di noi”. E’ preoccupato di scatenare Hulk più di quanto lo preoccupi l’Agente Romanoff.

“No, of course not. I’m here on behalf of SHIELD”

La Romanoff comincia a dare informazioni sul perchè è lì. Sempre una cosa alla volta, con calma.

“SHIELD…”

Banner sa chi sono, e non è del tutto chiaro se la cosa gli piace o meno. Il modo in cui lo dice punta su “devo capire un po’ dove vuole andare a parare, ma poteva essere peggio”

“How’d they find me?”

“We never lost you, doctor. We kept our distance, we even helped keep other interested parties off you scent”

Ancora, questa battuta dice “Puoi fidarti, vedi, se avessimo voluto avremmo potuto, e invece ti abbiamo lasciato stare. Ti abbiamo anche aiutato. ”

“Why?”

Questa domandina nasconde l’intelligenza di Banner. “Non mi avete aiutato così, per niente, giusto perchè vi sto tanto simpatico. Quindi cosa volete?”

“Nick Fury seems to trust you, but now we need you to come in.”

“What if I say no?”

Banner non chiede neppure di cosa si tratti. La cosa più importante per lui è capire se e fino a che punto è libero di dire di no. Sa che non può veramente dire di no allo SHIELD, non come Banner, il punto è se dovrà seguire la Romanoff come prigioniero o come pari. Banner avrà una scelta vera da fare nel film, ad un certo punto dovrà davvero fare liberamente la scelta se dire di sì o di no.

“I’ll persuade you.”

Lui deve andare. Il tono affabile significa che l’Agente Romanoff preferisce di gran lunga le buone alle cattive.

“And what if the other guy says no?

Vediamo la prima volta come Banner chiama Hulk. Da una parte Banner vede Hulk come qualcos’altro, qualcosa di separato da lui, dall’altro invece è chiaro che Hulk è parte di lui. Banner direbbe di no, anche Hulk direbbe di no. Qui vengono fuori le sfaccettature contraddittorie del personaggio, dietro la superficie posata, razionale, gentile, dietro un personaggio che si nasconde e vuole solo essere lasciato in pace, il pericolo è pronto a venire alla superficie nella piu’ rabbiosa delle maniere. Si capirà benissimo dopo, ma gia da qui si vede che Banner ha in qualche modo fatto i conti con la sua condizione. Banner probabilmente non può dire di no alla Romanoff, ma Hulk potrebbe. E cosa potrebbe fare la Vedova Nera contro Hulk?

“You’ve been more than a year without an accident, I don’t think you want to break that streak.”

La Vedova Nera aggira la domanda, che cosa potrebbe dire? Scatenare Hulk è una pessima idea, è proprio quello che vuole evitare. Non parla dell'”other guy”, resta su Banner dicendo che lui decidera’ di non scatenare Hulk. E dicendolo va a prendere il cellulare, allontanadosi da Banner. La situazione è stata chiarita. Banner potrebbe dire di no, ma non lo vorrebbe.

“Well, I don’t always get what I want.”

E qui Banner dice che non sempre riesce a tenere a bada l'”other guy”. Di nuovo non suona affatto come una minaccia, anzi, c’è un velo di tristezza e di rammarico nel modo in cui lo dice.

“We are facing a potencial global catastrophe”

Posto nella più convincente delle maniere che non è lì necessariamente per fargli del male, l’Agente Romanoff prende in mano la conversazione e comincia a dire quel che deve dire.

“Well, those I actively try to avoid.”

Questa battuta fuonziona meglio in inglese. Esprime meglio l’autoironia di Banner. Sta parlando di se stesso. Chi è in grado di fare autoironia ha accettato se stesso. Banner non è vittima di Hulk. Banner è Hulk e Hulk è Banner, man mano che il film va avanti sarà sempre più chiaro.

“This is the Tesseract. It has the potencial energy to wipe out the planet.”

L’Agente Romanoff si siede, un gesto di sicurezza e di fiducia. “Sediamoci intorno a un tavolo a parlare”. Notare che qui si stanno passando delle informazioni a Banner. Visto che passare informazioni è noioso, specie se come in questo caso il pubblico già conosce gli eventi, le informazioni passate sono essenziali, “it has the potencial energy to wipe out the planet”, punto, fine, niente Loki, niente di niente. Il pubblico sa già quel che deve sapere, qui bisogna solo dire che adesso anche Banner lo sa. In più le informazioni sono inserite in mezzo a una scena in cui il punto focale sono i personaggi, non le informazioni stesse. Altrimenti detto, c’è poco raccontato in molto mostrato.

“What does Fury want me to do? Swallow it?”

Ironia. Sempre su Hulk. Banner non si siede, anche se c’è un’altra sedia, e tiene il tavolo tra sè e lei.

“He wants you to find it. It’s been taken. It emits a gamma signature that is too weak for us to trace. Nobody knows gamma radiation like you do. If there was, that’s where I’d be.”

Qui l’Agente Romanoff mette bene in chiaro che vogliono Banner per le sue qualità di scienziato, nient’altro. Anzi, se avessero avuto una scelta non sarebbero andati da lui dal principio.

“So Fury isn’t after the monster.”

Banner ha recepito il messaggio. Notare che Banner comincia qui a riprendere le redini della conversazione, ma adesso ha un approccio diverso, sta forzando, va verso lo scontro.

“Not that he’s told me.”

Risposta da vera spia. Leggasi: “Io sono sincera. Se poi le cose vanno diversamente non prendertela con me”.

“And he tells you everything.”

La ricerca dello scontro è velata dal tono di voce basso, ma c’è. Se l’aspetto dimesso, il non guardare sempre negli occhi l’interlocutore, il tono di voce o la gentilezza avessero ingannato, Banner è capace dello scontro, e questo perchè è sicuro di sè, non si trasformerebbe in Hulk ma in un micio molto sovrappeso se così non fosse.

“Talk to Fury. He needs you on this.”

“He needs me in a cage.”

Banner sta mettendo l’Agente Romanoff in un angolo.

“Nobody is going to put you in a…

Si allunga per prendere il cellulare…

“Stop lying to me!”

Chiunque si sia inventato quest’uscita di Banner, Joss Whedon immagino, ha tutta la mia stima. Spaventa e sorprende lo spettatore. Lo spettatore non vive queste emozioni per interposto personaggio, trabuzza davvero gli occhi e salta sul serio sulla poltrona. La reazione emotiva è il modo migliore per insegnare qualcosa allo spettatore, Banner è pericoloso, Banner è imprevedibile. Banner non è passivo, sa usare la sua rabbia, non aspetta necessariamente che gli altri lo facciano arrabbiare, è lui che si arrabbia se necessario. Il pericolo, già anticipato nella scena dell’interrogatorio, è riflesso di nuovo dalla reazione dell’Agente Romanoff, che tira istantaneamente fuori la pistola. La sua espressione è chiara, ha paura.

“I’m sorry, that whas mean. I just wanted to see what you’d do. Why don’t we do this the easy way, where you don’t use that, and the other guy doesn’t make a mess. Ok? Natasha?”

Banner è un dritto. Ha messo nel sacco l’Agente Romanoff. L’ha spinta dove voleva. Voleva una reazione sincera e l’ha ottenuta. Per il pubblico questa è una brutale conferma di quello che già si era intuito, Banner non nasconde affatto di essere Hulk, conosce il limite e lo usa. Qui sta giocando con l’immagine che gli altri hanno di Hulk e di quello che lui potrebbe fare. E subito si scusa, torna al tono sussurrato di prima, con un sorrisetto riconosce di essere stato uno stronzo, e adesso è lui a mettere in chiaro che se nessuno lo minaccerà, l'”other guy” non combinerà un casino. Più sicuro di sè di così si muore.

“Stand down. We are good here.”

“Just you and me.”

La chiusura è bella perchè riprendendo una battuta centrare della scena chiude il cerchio.

Questa scena fa tutto quello che deve fare e qualcosa di più. Il personaggio è presentato, chiunque abbia un minimo di intelligenza emotiva ha inquadrato bene Banner, l’ha capito, e dunque comincia a costruire un legame emotivo che è in definitiva il trucco perchè un personaggio funzioni, perchè il pubblico si appassioni a quello che fa e soffra e si entusiasmi insieme a lui. Il motivo per cui uno dei momenti che preferisco, e che un po’ tutti amano, è quando Hulk spacca il muso a quella specie di tartaruga dinosauresca, “io sono sempre arrabbiato” SMASH! (oltre alla scena in cui strapazza Loki come un sacco di noccioline, la più hulkesca di tutte) non è solo perchè è spettacolare, è perchè senti la catarsi di tutto il personaggio chiudersi su quel momento.

La 41esima regola per scrivere bene di Umberto Eco

Girando per l’Internet continuo a trovare le “40 regole di Eco” tratte da La bustina di Minerva, e visto che assomigliano alle regole per scrivere di questo celeberrimo manuale sullo stile, le riporto anch’io.

Queste regole evidentemente non sono nate per la sola narrativa, ma per la scrittura in genere, per cui alcune non si applicano alle lettera. Io mi rifaccio sempre alla scrittura per la narrativa.

1. Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.

Non so perchè questa regola stia per prima. Perchè Allitterazione comincia con la A? Evitare le allitterazioni è una buona regola, e per un motivo preciso: spostano l’attenzione del lettore dalla storia, dove dovrebbe stare, alla scrittura stessa, che in sè è solo un mezzo. Vedi il principio di scrittura trasparente.

2. Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.

Dove vai se la grammatica non ce l’hai?

In narrativa la grammatica è: ciò che se non c’è non vale neppure la pena continuare a parlare. Con un’eccezione però. Errori grammaticali hanno un perchè quando messi in bocca a personaggi di basso livello culturale. Nessuno si aspetta che la casalinga di Voghera con la terza elementare usi i congiuntivi. Farglieli usare correttamente sarebbe un errore.

3. Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.

Sante parole! Le frasi fatte fanno cadere le unghie dei piedi. A meno che, di nuovo, non sia un personaggio a parlare così e vengano usate a fini ironici… e comunque, ricordatevi che non ci sono più le mezze stagioni.

4. Esprimiti siccome ti nutri.

Ottimo consiglio.

5. Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.

Disturbano anche me. In particolare gli americani hanno come sport nazionale l’invenzione di sigle, pare li disturbi enormemente chiamare le cose con il nome per intero.  Va bene CIA, ma certe volte pare parlino in codice.

6. Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.

Vero. Nella scrittura per la narrazione le parentesi raramente si usano. Anche perchè, quando ben serve fare un inciso, basta piazzare due virgole al posto giusto.

7. Stai attento a non fare… indigestione di puntini di sospensione.

Ah, i puntini… stramaledetti puntini… come tutti segni di interpunzione usati… alla cavolo!!! Che è mica questo il modo di scrivere????? I puntini di sospensione, così come i punti esclamativi, vanno usati con attenzione. Quando sono troppi è segno che lo scrittore stesso… insomma… non è che sappia esattamente…

8. Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.

Stesso discorso del punto 7, non sovraccaricare il testo di segni inutili. A parte quando le virgolette indicano un dialogo, si capisce.

9. Non generalizzare mai.

Questa regola è così generale che non capisco bene cosa voglia dire. Pare essere anche molto esplicativa. Da un punto di vista raccontato non si capisce, da un punto di vista mostrato invece sì. Capisco ma non capisco, mmm…

10. Le parole straniere non fanno affatto bon ton.

Eco, ti bacerei sulla fronte.

11. Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu”.

Spero a nessuno venga in mente di imbottire un romanzo di citazioni.

12. I paragoni sono come le frasi fatte.

Non direi che i paragoni siano minestra riscaldata, dipende dal paragone. E’ vero però che rischiano di essere banali e raccontati. Le similitudini, che sono una forma di paragone, se usate bene possono invece risolvere la situazione, non le eliminerei certo dall’equipaggiamento dello scrittore.

13. Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).

Un altro bacio in fronte. Mai annacquare il vino.

14. Solo gli stronzi usano parole volgari.

Non è vero. Anche chi è incazzato, chi si è appena preso una martellata sulle dita, chi non è stato educato a badare alla lingua, chi non ha voglia o interesse a mostrarsi perbene, chi guarda una partita di calcio con gli amici e vince la squadra sbagliata, chi si trova in un contesto dove la volgarità non stona.

Sono contraria alla categoricizzare le parole come “buone” e “cattive”. Le parole volgari fanno parte del vocabolario come tutte le altre, e come tutte le altre vanno usate nel modo e nel momento giusto. L’unico metro di giudizio che si può dare sulle parole è la loro efficacia, e in questo senso stronzo è molto più bella di categoricizzare.

Detto questo, le volgarità scritte hanno un peso maggiore delle volgarità parlate. E’ bene andarci cauti con le parolacce.

15. Sii sempre più o meno specifico.

Bacio con schiocco questa volta.

16. La litote è la più straordinaria delle tecniche espressive.

Eheh, grazie Eco per la sottigliezza. Questa regola cade sotto “non negare per affermare”, “non usare più parole del necessario”. Discorso a parte se c’è un’intenzione ironica.

17. Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.

Le frasi con una parola sola hanno una ritmica particolare che di rado ha un senso usare, ma arrivano momenti in una narrazione dove serve proprio quel ritmo. Non c’è nessun motivo pratico per eliminarle del tutto.

18. Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.

La regola è “una metafora deve aiutare il lettore, non incasinargli il cervello”. Una metafora eccessiva più probabilmente incasina il cervello, come lo fanno metafore fuori tono o inutili.

19. Metti, le virgole, al posto giusto.

Dove vuoi andare se la punteggiatura non ce l’hai?

20. Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.

Vedi punto 19.

21. Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.

Non capisco se vuole dire di non usare il dialetto o se vuole dire di non usare il dialetto anche se l’italiano non lo sai. Comunque sia, è chiaro che il dialetto va usato solo se si ha un buon motivo e solo se lo si sa gestire.

22. Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.

Vedi punto 18.

23. C’è davvero bisogno di domande retoriche?

No, no, e poi ancora no. Sono paro paro alle frasi fatte. (Ooops, ho fatto un paragone!)

24. Sii coinciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe – o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento – affinchè il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.

Sorvolo sul “potere dei media” e rimando al punto 13.

25. Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.

E qui si ringrazia la Ciurma della Crusca.

26. Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.

Vedi punto 2.

27. Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!

Vedi punto 7 e punto 13.

28. Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.

Che odio le esse plurali inglesi in italiano! mamma mia… o parli in italiano o parli in inglese, vanno bene entrambe per me, ma scegli! Hai usato un termine straniero, ma che bravo, e ci hai pure fatto il plurale, ma complimenti al gegnio!

29. Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.

Fai che scriverle giuste tutte le parole, va’.

30. Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo, l’autore del 5 maggio.

Altro bacio in fronte. E questa stravale anche per la narrativa. I nomi dei personaggi sono trasparenti, usateli. State scrivendo un romanzo, non le parole crociate.

31. All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).

Eheh. Beh, questa sta sotto il “non prendere per il culo il lettore”.

32. Cura puntigliosamente l’ortograffia.

Vedi punto 30. Gli errori di battitura scappano sempre, ma limitarli in numero è un obiettivo perseguibile.

33. Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.

Stucchevole, stucchevole. Tanto più in una narrazione, dove una preterizione, a meno che non sia pronunciata da un personaggio o da un narratore in prima, presuppone che l’autore sia entrato a viva forza nella storia, il che è una delle peggiori bestemmie in narrativa.

34. Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.

Bisogna andare a capo al momento giusto. E il momento giusto cambia a seconda del ritmo della narrazione, sovente o non sovente che sia.

35. Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.

Vedi punto 33.

36. Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.

Questa non è scrittura, questa è logica. Questa regola vale sempre. Che si scriva, si parli o si ribollisca fra sè come una pentola di ceci. (Tre congiuntivi sulle tre coniugazioni, mi sento realizzata).

37. Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.

Ovvia conseguenza pratica del punto 36.

38. Non indulgere ad arcaismi, apax legomena o altri lessemi inusitati, nonchè deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differanza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.

Aahahahh, eh ehm. Alla faccia della scrittura trasparente.

39. Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che.

Certo. Anche se vista la logorroicità media mi sa che non si corre il rischio.

40. Una frase compiuta deve avere.

Vedi punto 2.

Fine delle regole di Eco.

E… e la regola 41?

La regola 41 Eco l’ha ripetuta 40 volte all’interno di ciascuna delle 40 regole. Non la indovinate?

Mostrare è meglio di raccontare.

E se lo dice Eco è vero per forza.

Esercizi di dilatazione musicali

Esercizi di dilatazione

Così come storie possono essere ispirate da disegni. Così disegni, e storie, possono essere ispirate dalla musica, e viceversa.

Costruire immagini e storie a partire della musica non è una trovata nuova. Chi non ha visto Fantasia della Disney? Ma sarebbe interessante fare gli stessi esercizi di dilatazione anzichè con le immagini, con la musica.

Scrivendo spesso con la musica di sottofondo, mi accorgo che mi influenza, specie ritmicamente. Quando la tensione della musica sale, anche la tensione narrativa sale. Quando la musica ispira certe sensazione, quelle sensazione finiscono sulla pagina. E’ buffo, anche se penso funzioni solo perchè scrivo di getto, senza quasi preparazione. D’altronde gli esercizi di dilatazione funzionano proprio così, niente preparazione, buttar giù quel che viene in mente e basta.

Ho fatto un tentativo con gli esercizi di dilatazione visiva ed è stato interessante, ripeterò sicuramente con un’altra immagine e probabilmente scriverò un articolo sul risultato che ho ottenuto, ma mi piacerebbe provare questo esercizio anche con la musica. Certi generi musicali, e certi brani in particolare, ispirano moltissimo.

In fondo con Fantasia è venuta fuori una gran figata e Allegro ma non troppo, parodia italiana che per certi versi supera l’originale, per altri no, ha qualcosa di geniale.

Notte sul monte calvo, di Modest Mussorgsky nell’interpretazione disneyana Brrr!

Da Allegro non troppo con i disegni di Bozzetto, un Bolero di Ravel in chiave evolutiva. (la qualità audio non è gran che, ma è l’unica versione che ho trovato tutta intera)

Sempre da Allegro non troppo il Valse triste di Jean Sibelius, un pezzo che non riesco a vedere senza piangere. Non che io faccia testo, sono una piagnona, ma è… mamma mia… la musica è triste, ma le immagini…

Uuu! Fazzoletto…

Adesso vi tiro su. Vivaldi, Concerto in Re maggiore.

Ahahahha!

Certe musiche sono state scritte apposta per accompagnare una storia. Non solo musical o opera, ma anche balletti, come La bella addormentata del bosco di Tchaikovsky, le cui musiche sono state tra l’altro usate a piene mani nel cartone della Disney; cavolo, vale la pena vedere quel cartone anche solo per la colonna sonora! Certe musiche ispirano per il loro particolare temperamento, la musica di Wagner per esempio è molto, molto epic fantasy, si ispira a leggende e fiabe nordiche. Poi c’è la cosiddetta musica a programma, vale a dire musica che racconta una storia. Il poema sinfonico La Moldava di Smetana è la storia di un fiume, la Moldava (che guarda caso sta in Moldavia), dalla sorgente al mare passando attraverso villaggi e cascate. Le Quattro stagioni di Vivaldi sono l’esempio più famoso di musica descrittiva. Poi c’è musica che pur non essendo descrittiva è ispirata ad ambienti specifici, come la Sinfonia “Pastorale” di Beethoven. Tra l’altro, sia le quattro stagioni che la pastorale contengono bellissimi temporali.

Terzo e ultimo movimento dell’estate. Dove altro poteva stare il temporale?

Che brrrrividi!

Quarto (e quinto) movimento della Sesta sinfonia “Pastorale”. Salta fuori persino il vento che soffia. Anche quelli della Disney l’hanno sentito.

Ah, bellissimo. Esiste una trascrizione per piano solo di Listz di questa, come di tutte le altre sinfonie. Che rabbia che sia troppo difficile per me.

Per questi esercizi di dilatazione stavo pensando a un movimento della terza sinfonia di Glière, una sinfonia abnorme, dura tipo un’ora e venti minuti, stile molto steppa russa. Pensavo alla Follia di Vivaldi, non perchè mi ispiri una storia, ma perchè mi piace alla follia. Pensavo a Scarbo di Ravel, di cui ho trovato una bellissima interpretazione di Argerich, parecchio inquitante e aggressiva. E sto pensando ai Pink Floyd, qualcosa che non contenga parole. Vedremo.

Fuochi fatui IV – Hydropunk

Ed ecco il finale. Ohi ohi.

Fuochi fatui I

Fuochi fatui II

Fuochi fatui III

[…]
Chiarizia respirò a fondo, prese slancio, sganciò l’arpione e si tuffò nel mare nero.
Sprofondò nell’acqua senza curarsi di tornare a galla, imbracciò l’arpione e sparò alla cieca l’unico colpo. I vestiti e gli scarponi gli impacciavano i movimenti, lasciò andare l’arpione e nuotò verso l’alto. Sfiorò la superficie, sbuffò e prese un mezzo sorso d’aria. Le creature lo avvolsero e lo trascinarono di sotto. Chiarizia scalciò, afferrò la carne viscida e dura come acciaio che gli avviluppava le gambe. Nel taschino, sotto la giacca, infilò la mano a destra e a sinistra tra i lembi della camicia, c’era il coltellino, gli mancava l’aria, doveva salire, gli presero il polso sinistro, con l’unica mano si affannò a salire fra il gorgoglio delle bolle d’aria, l’acqua gli premette nelle orecchie, nuotò e le creature lo tirarono giù. Serrò i denti per costringersi a non respirare l’acqua, si tappò la bocca con la mano libera, e sprofondò. Le creature si strinsero ai polsi e alle caviglie, strisciavano e tiravano. Chiarizia si dibatté, graffiò la carne, schiaffeggiò l’acqua, lottò contro gli spasmi dei polmoni che invocavano aria. Gli strapparono la mano da davanti la bocca. Doveva respirare, il diaframma gli rimbalzava fino in gola, perse gli scarponi, doveva respirare. Aprì la bocca e la richiuse, inghiottì acqua e bolle, il naso e la fronte bruciarono invasi d’acqua salata. Percosse l’oscurità, si contorse, doveva respirare, si liberò una mano, la ripresero, lo tirarono giù. Chiarizia respirò un sorso d’acqua.
 
Tossì. Sputò saliva acidula mista al sapore amaro del mare.
Faceva freddo ed era fradicio. Era in piedi, legato per le spalle a qualcosa. Si mosse e scoprì di avere pareti tutt’intorno a sé. Era dentro a qualcosa.
Nel buio, davanti a lui, fluttuavano milioni di piccole luci. Un soffio d’aria fredda sibilava dietro l’orecchio destro. Tastando le superfici trovò un pulsante triangolare. Un faretto gli si accese sopra la testa.
Era in uno scafandro. Uno scafandro di metallo rivestito da uno strano cuoio del colore della pancia dei pesci. All’altezza dell’ombelico c’era uno sportello stagno che Chiarizia immaginò servisse per passare oggetti da dentro a fuori. Cibo e acqua forse. All’altezza del viso un oblò dava sull’oscurità.
Tossì. Di fianco al primo c’era un secondo pulsante che accendeva le luci esterne dello scafandro. Chiarizia spense le luci interne per vedere meglio. Dei cavi fissati allo scafandro lo tiravano in basso.
Erano state le creature a metterlo lì dentro. Fece per scrollarsi, provare a liberarsi, poi pensò che essere sperduto negli abissi dentro una bara, senza sapere qual’era il sotto e quale il sopra, avrebbe significato l’agonia.
Aveva perso la pipa. In tasca trovò solo un pugnetto di tabacco zuppo di acqua di mare.
«Maledizione, maledizione, maledizione…»
Qualcosa gli dava fastidio sulla schiena. Era lo zaino. Contorcendosi, maledicendo le creature, lo scafandro e la ciccia di troppo sulla pancia se lo portò davanti. Lo aprì. Cinque mine, grosse come il pugno di una mano, erano intatte. Le rimise via.
Gli formicolarono le dita. L’immagine del corpo di Martinozzi gridava vendetta. La sua pipa, il regalo che gli era più caro, gridava vendetta. Il capitano DeLuca gridava vendetta.
Ascoltando il sibilo dell’aria a pressione, scrutando nell’oscurità vuota dell’abisso, Chiarizia aspettò di rincontrare le bestie.
 
Una luce azzurrognola crebbe dal basso disegnando contorni di colline e di edifici sottomarini. Angoli e archi di luce vibravano come fossero vivi. La corrente frusciò sulle lamine di metallo.
Sprofondando, Chiarizia passò accanto a una struttura di metallo più alta di una nave da crociera al cui interno girava lenta un’elica spinta dalla corrente. Pareva l’elica di una nave, ma non ne esistevano di così grandi.
Segnalati da luci, una fila di fumaioli s’innalzava nell’oscurità fuoriuscendo da un edificio senza tetto, con pareti spioventi e un lato a forma di prua al cui interno ingranaggi e catene emettevano tonfi e stridii.
Dalla fabbrica, una colonna di vapore e fuoco si accese nell’acqua e scomparve in un bagliore.
Chiarizia scese seguendo le pendici della collina verso una spianata e vide le creature. Vennero per sganciare i cavi. Avevano la pinna prensile, la proboscide, e il lungo braccio collegato al corpo, una palla grigiastra e bitorzoluta cinta da appendici semitrasparenti che ondeggiavano avanti e indietro. Una fila di puntini neri si muovevano a scatti sulla cima del corpo e alla base della pinna prensile. Occhi, che lo fissavano. Le creature non nuotavano, ma fissate a una sacca di pelle di squalo sciamavano su aggeggi ovali dotati di alette laterali e ventrali e di eliche che frullavano nell’acqua vibrando come mosconi. Aloni di luce si accendevano e spegnevano attorno agli occhi.
Chiarizia si asciugò il sudore, inspirò a fondo l’aria fresca che soffiava nello scafandro senza riuscire a sbattere le palpebre. Un altro gettò di fuoco accese gli abissi e si spense.
Chiarizia strizzò gli occhi. A sinistra, ai piedi della collina, c’era un lago, un lago d’acqua nell’acqua, immoto, color piombo. Una creatura lo sorvolò sul suo idrogibile. Le sponde di roccia sforacchiata brulicavano di granchi bianchi come neve, di cozze e di vermi orlati di tentacoli che pulsavano di luce. Dalle sponde che risalivano verso la collina estrudeva una pietra bianca che pareva ghiaccio o gesso. E dalla pietra sgorgavano nugoli di bollicine. Le bolle salivano dal fino a un cono di pelle trasparente con un intelaiature di metallo che le raccoglieva e le aspirava in un tubo.
Le creature spinsero lo scafandro verso il fianco della collina, dove la roccia era stata scavata e i massi tagliati per farne una costruzione nera, bucherellata come un alveare e popolata da una moltitudine di creature, che la rendevano tanto luminosa da farla sembrare un faro. Dai buchi sporgevano ovunque tubi, proboscidi, banderuole di cuoio e idrogibili. Era la loro casa, vivevano lì.
Chiarizia tastò la rotondità delle mine contro la schiena.
Quello era il posto per farle esplodere. Non potevano vederlo dentro. Poteva farle cadere una per una. Anche se se ne fossero accorti sarebbe stato troppo tardi. Lui sarebbe morto nell’esplosione, ma meglio così che asfissiato nello scafandro o divorato.
Le creature spinsero lo scafandro sempre più vicino all’edificio. Chiarizia accarezzò la mina, sfiorò la sicura.
 
Lo accostarono al lato di dritta dell’edificio, dove l’attività ferveva meno frenetica, ma fosse come fosse, parecchie centinaia sarebbero morte con lui nell’esplosione o nei crolli.
Un singolo oblò era imbullonato alla pietra. La luce che emetteva era diversa, più normale, più elettrica.
Chiarizia afferrò la mina. Una volta vicino non aveva che da togliere la sicura, appoggiare la mina nel vano e buttarla fuori. E contare quindici minuti.
Spense le luci esterne. Il sudore gli pizzicava sulla fronte. Forse avrebbe avuto tempo di gettarne altre. Digrignò i denti al pensiero.
Incastonato nella roccia bitorzoluta e punteggiata di anfratti, l’oblò era illuminato da dentro. Vermetti e mitili ne incrostavano i bulloni.
Chiarizia prese un respiro profondo. Infilò l’indice nell’anello della sicura.
Una figura si mosse dietro l’oblò.
Ora o mai più. Con un colpo secco Chiarizia strappò la sicura.
Alzò gli occhi.
«Lara…»
Attraverso i due vetri dello scafandro e dell’oblò riconobbe il mento a punta, i riccioli ribelli, gli occhi neri come la notte che regnava perenne negli abissi. Il capitano Lara DeLuca.
La sua amata allungò le dita come per accarezzarlo sulle labbra e gli sorrise.
«Lara.»
Gli tremò la mano.
 
Fine
 

I commenti sono bene accetti, giuro che non strangolerò nessuno. (Leathy, la motosega!)

Fuochi fatui III – Hydropunk

Terza parte del racconto Fuochi fatui

Fuochi fatui I

Fuochi fatui II

[…]
I fari della nave non si vedevano. La Sirena non c’era.
Sebastiani si affannò a guardarsi intorno.
«Dov’è?» ripeté Chiarizia intontito dalla carenza di ossigeno.
«Sento qualcosa,» disse l’irlandese.
Chiarizia afferrò l’arpione e scrutò l’oscurità resa impenetrabile dagli occhi accecati dal fuoco.
L’acqua sciabordava pacifica, nulla si muoveva sotto la superficie.
Un urlo.
«Di là!»
Era la voce di Martinozzi. La sirena della nave lanciò l’allarme.
Sebastiani pagaiò come un forsennato, l’irlandese di fianco a lui, e Chiarizia sedette sul tubolare, l’arpione stretto in mano e la pipa stretta fra i denti, respirando a fondo per schiarire i pensieri.
Intravide la Sirena a un quarto di miglio a sud ovest, i fari erano spenti, solo la luce in cabina era accesa. Sotto il rumore di schiuma delle pagaie giungeva un lontano scroscio di spruzzi.
La voce della Rosi rimbalzò sul mare.
«Sto arrivando, sto arrivando…» mormorò Sebastiani battendo l’acqua.
Giunsero sotto la Sirena che si era fatto silenzio, i fari erano rotti, le luci in cabina e sul ponte accese.
«Rosi,» chiamò Chiarizia afferrando la scaletta di corda. «Rosi!»
La Rosi si sporse dal parapetto. «Sono qui, capitano.»
«Che è successo? Stai bene?» chiese Sebastiani.
«Siamo stati attaccati, erano le bestie. Martinozzi è caduto in acqua.»
Il capitano si issò a bordo. Sul ponte nulla era fuori posto se non per una pozzanghera, una ciambella salvagente buttata tra i cordami e una cosa, un ammasso verde bottiglia gettato sul fianco di sinistra.
«L’ho portato in cabina,» disse la Rosi mostrando le mani escoriate. «L’ho tirato su a forza.»
«Capitano!»
Martinozzi sbucò da sottocoperta sbiancato e zuppo, un calzino gli penzolava dal piede come un calamaro. «Capitano, le creature… le bonellie, volevano affogarmi.»
Chiarizia sentì montargli il mal di testa. «Portami un po’ del mio mirto, vuoi?» disse all’irlandese. «E tu disinfettale quelle mani.»
Sebastiani partì verso la cassetta di primo soccorso.
«Adesso, Martinozzi. Mi spieghi…»
«Quello che vuole, capitano.»
«…come avrebbero fatto ad affogarla?» tirò un sospiro per calmarsi. «Come cazzo avrebbero fatto se lei stava qui a bordo con cinque metri d’aria tra lei e l’acqua? Dove cazzo è il mio mirto?»
L’irlandese arrivò col mirto e una pastiglia. Chiarizia trangugiò l’uno e l’altra.
«Capitano, io…» Martinozzi allargò le braccia.
«Si è sporto dalla balaustra ed è caduto,» disse la Rosi.
«Si è sporto dalla balaustra ed è caduto?» la pastiglia si era incastrata fra i denti, sapeva di rafano.
«Io, capitano, la avevo viste sotto che cercavano di…»
Martinozzi fissava qualcosa a sinistra.
«Cosa c’è?» Chiarizia seguì lo sguardo di Martinozzi fino al cumulo verde contro il parapetto. Parevano alghe dai riflessi metallici. Chiarizia fece per raccoglierle, ma Martinozzi balzò avanti.
«Non la tocchi! È una bonellia. Oddio. Nessuno la tocchi!»
«Ce l’aveva avvolta a una gamba quando l’ho tirato su,» disse la Rosi.
Un filamento spesso come il polso di una donna, aggrovigliato su se stesso, esalava un odore fresco di mare. Da una parte terminava con una grossa protuberanza biforcuta simile a una pinna, con delle protuberanze più piccole lungo l’orlo inferiore che vibravano di una debole luminescenza. Questa era la cosa che aveva ucciso il capitano DeLuca.
Martinozzi sollevò la creatura con guanti di lattice e la posò su un vassoio di plastica. Chiarizia si fece da parte e lo seguì in cambusa.
 
Martinozzi tramestò la creatura, la tagliuzzò, immerse pezzetti nelle provette insieme alle polveri e miscelò con movimenti rotatori del polso. Prese frenetici appunti borbottando tra sé, tastò la creatura, ne esplorò la pelle e l’annusò. Chiarizia, a braccia conserte, restò in disparte.
Il fumo gli accarezzava le narici dolce come l’aroma della pelle di una donna, tre bicchieri di mirto gli avevano schiarito il cervello.
«Allora?»
«Questa non è l’intera creatura,» disse Martinozzi.
Chiarizia si sentì rimestare lo stomaco. «E dov’è il resto?»
«Sotto il mare. Questa è solo la proboscide, l’organo che usa per cibarsi e per manipolare. Queste non sono pinne, capitano. Sono la sua bocca e le sue mani. Questa specie ha sviluppato potenti fasci muscolari, per quanto mi dibattessi non riuscivo a staccarla dalla gamba.»
Chiarizia cercò di distrarsi camminando avanti e indietro. «E cosa manca?»
«Il cervello, capitano. E tutti gli organi interni. Le bonellie comuni respirano attraverso la superficie della proboscide, ma io penso che questa specie sia troppo grande e troppo attiva per una respirazione cutanea. Probabilmente l’organo respiratorio è sul corpo centrale dell’animale.»
«Il corpo centrale dice?»
«Sì, ha grossomodo la forma di un… un cedro. Più grosso di un cedro nel caso di questa specie, almeno sei volte, direi.»
«E ne hanno una sola di proboscide?»
«Penso di sì. Da come mi ha afferrato è un organo molto preciso e forse queste, vede?» toccò con le pinze le protuberanze sul bordo inferiore. «Forse sono appendici prensili, come delle dita. Altrimenti non si spiega come costruiscano i manufatti. O come facciano ad aprire lo scavo delle barche e prendere i marinai per le gambe per tirarli giù e affogarli. Potrebbero volere i corpi per qualcosa. Mi risulta siano detritivore, magari queste sono carnivore, magari gli servono i corpi per…»
Chiarizia afferrò la matassa della bonellia e la sollevò come un trofeo.
«Capitano, ma che fa? Così la danneggia.»
Era ruvida al tatto, e umida. Affogare i marinai per divorarli, bestie immonde.
«Dice che se l’appendo a poppa la vedranno? Se la trasciniamo per il mare finché non imputridisce proveranno qualcosa?»
«La rimetta giù.»
Chiarizia stritolò i resti della creatura fino a farsi male alle nocche. «Verranno a prendermi? Verranno anche per me?»
«Capitano,» Martinozzi gli appoggiò una mano sul braccio. «Lei sta piangendo.»
Chiarizia lasciò cadere i resti. Gli era salita la nausea, il mal di testa gli martellava nel cranio. Si aggrappò alla pipa con le mani impiastricciate di sangue oleoso e ci cacciò dentro il tabacco, metà cadde fuori, spaccò due fiammiferi, al terzo aspirò come fosse ossigeno.
«Capitano…»
Chiarizia diede un calcio ai resti. «Schifo.»
«Si sente bene?»
Ricacciò indietro nausea ed emicrania. «Certo. Stanchezza, ho respirato troppo metano e troppo poco ossigeno nell’ultima ora. Mi segua, dobbiamo…»
La nave s’inclino di dritta. Il microscopio si sfracellò per terra.
Chiarizia corse sul ponte.
 
Il pallone centrale di dritta collassava su se stesso, l’elio sbuffava da uno squarcio in basso.
La nave oscillò, Chiarizia si tenne alla scaletta. Sebastiani e la Rosi scrutarono le acque con le torce.
«Qualcosa è uscito dall’acqua e…»
Un oggetto appuntito come una freccia schizzò fuori dall’acqua e trapassò il pallone di poppa. La nave emise un gemito e si piegò.
«Ritirate gli altri palloni o ci ribalteremo!» urlò Chiarizia vacillando verso l’argano.
Si mise in spalla lo zaino con le mine e imbracciò un arpione. Il primo pallone colpito si afflosciò sul fianco della nave e si adagiò in mare. Il timone della Sirena sfiorava già l’acqua. Non c’era modo di salvare la nave. Chiarizia si guardò attorno spaesato. Le creature potevano aprire un buco nello scafo e loro annegare senza riuscire fare niente. La Sirena era persa.
«Sabastiani, prepara il gommone. Ce ne andiamo.»
Uno schianto rimbombò dalla pancia della nave.
«Capitano,» Martinozzi sbucò da sottocoperta bagnato fino ai gomiti. «C’è acqua dappertutto!»
Lo stridio dell’acciaio lacerava le orecchie.
«La mia nave,» mormorò Chiarizia.
L’ultimo pallone fluttuò a mezz’aria e s’immerse.
«Forza, a bordo del gommone,» disse Chiarizia agganciando l’arpione allo zaino per liberarsi le mani.
Una deflagrazione squassò la Sirena. Chiarizia si tenne alla balaustra e fu strappato per terra. Schizzi alti quanto il ponte di comando salirono dal mare. Chiarizia scivolò, la nave s’abbandonò sul fianco.
Cavi spuntati dall’acqua, agganciati alla balaustra, tirarono tesi allo spasimo. La nave gemette sotto il suo stesso peso e sotto la pressione dell’acqua che penetrava dal basso.
L’irlandese cacciò un urlo e non si sentì più.
Sebastiani si protesse sul lato di dritta, appoggiato alla cabina, gridò alla Rosi.
«Capitano, si tenga!» urlò Martinozzi appeso alla balaustra con i piedi puntati sul mucchio delle reti.
Chiarizia si aggrappò all’argano. Le gambe, senza appoggio, gli scivolarono verso la balaustra che sfiorava il pelo dell’acqua. In mare, sotto la nuvola di schizzi, si agitava un turbinio di corpi che fremevano in un brillio di luci azzurrognole.
Una proboscide balzò fuori dall’acqua e atterrò sul parapetto, s’irrigidì vibrando le appendici come per annusare l’aria e prese a strisciare.
Chiarizia puntò gli scarponi di traverso sui bulloni del ponte, con gli occhi puntati sulla creatura tastò la presa con le dita e si tirò su di peso.
La creatura cadde all’indietro, altre due spuntarono dall’acqua. La nave si curvò gemendo, Chiarizia si appoggiò sulle ginocchia e fece forza con le braccia. Un rampino fischiò fuori dall’acqua, gli ricadde a una spanna dalla faccia e si ritirò grattando il metallo.
Il gommone soffiò e gorgogliò affondando.
Il rampino cadde sui galleggianti e li strappò.
«Capitano…» Martinozzi allungò il braccio protendendosi fino a pendere a test in giù. «Si aggrappi a me.»
Chiarizia affondò la faccia nel sacco di cordami incastrato sopra l’argano e tese la mano.
Qualcosa gli toccò il piede. Una proboscide gli attorniava la caviglia. Dibatté la gamba, col tacco colpì la creatura, non poteva muovere l’altra gamba per non scivolare, fece forza sulle braccia e la creatura lo trattenne.
«Prenda la mia mano!»
Chiarizia si diede lo slancio urlando e gli afferrò la mano.
La balaustra era sommersa, l’acqua ribolliva. Chiarizia scalciò e si liberò della creatura, Martinozzi puntò il piede destro sul ponte e tirò.
Un’esplosione sconquassò la nave, il ponte fremette, la suola di Martinozzi scivolò, egli perse la presa della cima, sfuggì dalle dita di Chiarizia e cadde. Picchiò la testa su una bitta e finì in acqua.
Il sangue colò sul ponte misto agli spruzzi e il corpo avvolto tra le spire delle creature sprofondò sott’acqua.
Chiarizia si resse alla base dell’argano, le gambe annaspavano nel vuoto, i cordami slittarono e si sparpagliarono, in acqua galleggiavano brandelli della chiglia.
«Maledetti,» le braccia e le spalle lanciavano fitte, l’acqua saliva e la Sirena s’inabissava a prua. Le luci si spensero.
Non poteva più tenersi. Non c’era motivo di tenersi.
[…]

 

 Fuochi fatui IV